Intervista: Editoria nel Novecento, Franco Caramanti
Ogni volta che allunghiamo la mano verso lo scaffale dei libri, ne scegliamo uno e lo cominciamo a sfogliare lo sguardo vaga tra linee di parole, fotografie, grafiche più o meno colorate. Ne valutiamo l’impaginato, la consistenza della carta, la tessitura dei caratteri. Ci soffermiamo sugli indici, iniziamo qualche capitolo a caso, un occhio sulla dovizia di note esplicative se è un saggio, eventuali postfazioni, quarte di copertina, risvolti… Un mondo intero: il libro è sempre il risultato, a volte felice altre meno, del lavoro editoriale: trasformando i testi nei manufatti concreti dei libri, propone dimensioni di pensiero, suggerimenti d’azione, orizzonti riflessivi, confronti meditativi, a volte di contemplazione. Il lavoro editoriale, con le sue idiosincrasie, i suoi personalismi, le sue avvincenti aneddotiche, la sua storia ultracentenaria fatta di successi, fallimenti clamorosi, colpi di scena, scelte sbagliate, suicidi, arricchimenti faraonici, orientamenti politici, slanci d’amore e vigliaccherie, amicizie tradite, fiducie ben riposte e ripagate, e chi più ne ha … innerva la nostra storia culturale fin dal ‘500. La storia dell’editoria è storia di libri e di uomini, epoche d’oro ed epoche buie, ma riesce sempre protagonista e riferimento irrinunciabile. Non ultimo in ordine di importanza, il periodo del Novecento italiano post-sessantottino, denso di vicende editoriali e di case editrici importantissime nel rinnovare riferimenti culturali dopo lo sbando ideologico delle guerre mondiali e degli “ismi” che le accompagnavano. Parliamo di libri e di editoria con una persona che ha costruito la propria carriera professionale proprio nel secondo Novecento, in seno ad alcune delle case editrici più importanti del panorama italiano: Franco Caramanti. Classe 1949, di origine cremonese ma di temperamento mantovano. Laurea in sociologia ma una vita interamente dedicata ai libri, come hai incrociato l’editoria?
Tutto ha origine dal mio antico amore verso i libri, la scelta era obbligata. Infatti una volta laureato e trasferito a Milano, ho fatto domanda per un impiego presso diverse case editrici. Alla fine mi sono impiegato alla Garzanti, dapprima come correttore di bozze e successivamente come redattore. Quindi ho fatto libri di scolastica, dizionari ed enciclopedie. Talmente trascinante il mio entusiasmo quando illustravo ad esempio le enciclopedie ai librai oppure ai venditori che, dopo un po’ di tempo, il direttore generale delle vendite mi chiamò a collaborare nel settore commerciale. Sono andato sempre bene, in Garzanti ero formatore del personale addetto alla vendita e capo area. Successivamente Feltrinelli mi fece la proposta di diventare il loro Direttore Commerciale. Accettai e passai a lavorare alla Feltrinelli, sempre a Milano. Anche alla Feltrinelli ho trovato subito un ambiente molto positivo e stimolante. In realtà, avevo già conosciuto Giangiacomo Feltrinelli durante il ’68, ma quando iniziai a lavorare presso la casa editrice Giangiacomo era già mancato e non l’ho conosciuto dal punto di vista editoriale.
Dalla Feltrinelli sono migrato alla Marsilio di Venezia su invito di Cesare de Michelis, l’editore più colto con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Successivamente alla Newton & Compton a Roma, e sempre a Roma nel Gruppo Mediterranee dell’editore Giovanni Canonico, dove ho portato le Edizioni Studio Tesi di Pordenone.
Dopodiché mi hanno proposto il posto di Direttore Generale presso la Rusconi Libri, a Rimini e concludo la mia carriera. Del Signore degli Anelli ne abbiamo venduto un’enormità di copie.
Un percorso veramente avvincente, lungo il secondo Novecento “a bordo” di case editrici importanti. Ma raccontami per esempio, di quando alla Feltrinelli ha preso le redini Inge, la ex moglie di Giangiacomo. Ha replicato le linee editoriali del marito oppure Feltrinelli con la nuova presidenza ha avuto un’altra caratterizzazione?
In realtà, la mission della casa editrice era in origine, ed è rimasta a tutt’oggi la “cultura per tutti”. Di origine tedesca, Inge Schöntahl era al tempo una giornalista e fotografa venuta in Italia su incarico della rivista per cui lavorava. Doveva intervistare Giangiacomo Feltrinelli, personaggio culturalmente interessante ormai anche all’estero. Si innamorano e si sposano, hanno il figlio Carlo che ora conduce la casa editrice. A mio parere, il vero quid di Inge Feltrinelli è la capacità di creare feconde tessiture relazionali con tutto il mondo, sia di editori che di autori. È grazie a Inge che la casa editrice ha prodotto la serie enciclopedica in collaborazione con l’editore tedesco Fischer, ad esempio. I rapporti con gli autori italiani venivano curati dallo staff redazionale interno, mentre lei si occupava del resto del mondo. È merito suo se sono arrivati i sudamericani (Isabel Allende, ad esempio). Ricordo perfettamente la scoperta di un’autrice molto importante: era un lunedì ed ero affaccendato con le mie carte, i tabulati, etc. quando Inge, di ritorno da un convegno di editori in India, piomba teutonicamente in ufficio. “Stiamo qui a dormire! …” esordisce, “… quando qui stanno vendendo otto milioni di copie …!” e mi cala sul tavolo un libro scritto interamente in giapponese. “Pubblichiamolo subito!”, ed esce. Ed era vero che in Giappone questo libro stava vendendo tantissimo, ma solo lì. Nessun altro editore al mondo aveva creduto nella validità di quel tipo di letteratura, la letteratura Manga. Preoccupato, chiamo immediatamente il mio collega direttore editoriale e gli mostro la trovata di Inge. Ci pensiamo un po’, del resto ci sarà stato pur un motivo se nessun editore né americano, né inglese o francese ci abbia creduto. Decidiamo allora di far tradurre il primo capitolo, per cominciare a considerare con prudenza l’eventuale investimento. Alla lettura, convince. Allora decidiamo, prima tiratura 20.000 copie. Era Kitchen, di Banana Yoshimoto. Tra l’altro, per un colpo di fortuna c’è stata concomitanza tra l’uscita del libro e la nomina del nuovo console giapponese: abbiamo svolto solennemente la presentazione della prima edizione al consolato giapponese di Milano. Forse Inge non avrà la statura culturale di Giangiacomo, ma certamente è dotata di un “fiuto” formidabile.
Si comincia dall’inizio, parliamo di Garzanti.
Alla Garzanti ho mosso i primi passi, si è svolta la mia formazione e ho trascorso un lungo periodo. Numerosi sono gli aneddoti, me ne viene in mente uno carino che riguarda il Veneto. Livio Garzanti era una persona che si “innamorava” letteralmente delle persone, degli autori. Si è innamorato di Pasolini, di Carlo Emilio Gadda, anche se il primo best-seller di Garzanti è stato però lo straniero Love Story di Erich Segal, portato in Italia dagli Stati Uniti dalla mitica signora Dalai, grande agente letterario (anche la pubblicazione italiana di Michael Crichton, Jurassic park è merito della signora Dalai). Ad un certo punto, Livio Garzanti si innamora di Goffredo Parise, gli pubblica Il prete bello che diventa subito un best-seller. Ci tiene talmente che vuole Parise a lavorare con lui a Milano. Però, con la tipica volubilità degli innamorati, invece di destinargli un ufficio già esistente, fa “restaurare” un vecchio fatiscente bagno dell’edificio. I rapporti fra i due cominciano a incrinarsi, per poi spezzarsi: Parise se ne va e scrive un libro, pubblicato sia da Einaudi che da Feltrinelli che si intitola, un’esplicita dedica, Il Padrone. La grandeur di Livio Garzanti può essere apprezzata nell’affresco di Tullio Pericoli della sala riunioni (denominata “la nave” per la copertura tipica o, più formalmente “Sala Garzanti”) della casa editrice in via della Spiga. In varie immagini vi sono affrescati l’editore, i suoi autori, la storia della casa editrice. Garzanti diceva: “avete presente la Cappella Sistina, no? È diventato famoso Michelangelo, ma anche papa Giulio II. Tullio Pericoli è il mio Michelangelo …” Per capire l’intelligenza e la lucidità autoironica di Livio Garzanti, possiamo scorgere in alcune scene l’editore in una delle sue pose ricorrenti: nell’atto di spiare dalla serratura di una porta degli uffici. Un’altra delle sue affermazioni ricorrenti era: “non sono gli autori che contano, sono io! È la Garzanti!” Del resto sue sono le Garzantine, mitiche; inoltre possiamo notare che i dizionari, le grammatiche, etc. di Garzanti si chiamano proprio con il nome dell’editore mentre, ad esempio, il dizionario pubblicato da Le Monnier si chiama classicamente con i nomi degli autori: Devoto-Oli. Devo dire che abbiamo lavorato molto bene, in quegli anni; le Garzantine sono una più bella dell’altra, curatele di grande professionismo e qualità.
Secondo te, un’editoria digitale che pure sta cercando di trovare la stabilità di un’identità, potrà essere un orizzonte per il futuro editoriale?
Credo proprio di no. I segnali statistici che ormai danno una panoramica di una certa ampiezza, stanno confermando che l’e-book non sta sostituendo il libro cartaceo. Ad esempio in Italia il libro digitale non ha mai veramente preso piede, al massimo è arrivato a coprire l’1,2/1,5 percentuale. Anche nei paesi dove è andato meglio, con valori attorno al 5 percentuale perciò sia nel mercato americano che nel mercato inglese, sta ora regredendo. Il libro doveva sparire: lavoravo in Garzanti quaranta anni fa quando un funzionario dell’IBM, la ditta che ci forniva il materiale per il Centro Elaborazione Dati (un intero piano dedicato a macchinari elettronici enormi), diceva che era necessario anticipare il futuro ineluttabile della sostituzione del libro cartaceo, soppiantato dalle nuove tecnologie. Sventolava un floppy-disk dicendo che conteneva l’elenco telefonico dell’intera Svizzera. Attorno al 1968, IBM aveva un centro studi nei pressi di Pisa dove un giorno invitarono noi, direttori giovani, per mostrarci i traguardi raggiunti nello studio delle tecnologie legate al processo della scrittura. Avvalendosi di questi computer “ad armadio”, conducevano delle analisi di tipo statistico lineare e di frequenza. Ad esempio, inserivano il romanzo I promessi sposi e contavano il numero di volte in cui comparivano le parole in tutto il romanzo, producendo delle graduatorie che lasciavano intendere che il segreto del successo fosse dovuto a una determinata frequenza di alcune particolari parole. La Garzanti ha pubblicato poi uno di questi dizionari, che si chiamavano Lessico di Frequenza. Questo lessico veniva acquistato soprattutto dalle redazioni dei giornali che cercavano di rendere efficaci i loro articoli. Un altro fenomeno che ho visto passare ad un certo punto sono state le videocassette. Dicevano che era inutile e costoso produrre libri e cataloghi d’arte, la videocassetta sarebbe stata la soluzione migliore e tecnologicamente avanzata: le immagini, i colori, il movimento… Sono state fatte le pubblicazioni in videocassetta, sono state distribuite attraverso tutti i canali commerciali, negozi dedicati compresi. Hanno fatto a tempo ad estinguersi, per convogliarsi prima in supporti alternativi digitali e poi sulla rete, mentre i libri ci sono ancora e continuano ad essere centrali: pensiamo ad una casa editrice come la Taschen. Certo alcune zone merceologiche sono ovviamente state influenzate dal digitale, mi riferisco ai dizionari e alle enciclopedie che ora non hanno più la diffusione di un tempo, ma anche al settore delle carte geografiche. La De Agostini ne ha chiuso la redazione, soppiantata dal GPS. Ma il libro cartaceo di narrativa, saggistica, teatro, arte, etc. risulta ancora vincente. Se dobbiamo identificare il vero nemico odierno della libreria non dobbiamo pensare all’e-book, ma all’e-commerce. Le librerie sono costrette progressivamente a chiudere e scompaiono così i luoghi dove viene moltiplicata ed esercitata con vitalità la creatività editoriale. È la libreria vera, con le persone vere e competenti, il luogo che genera l’interesse, la passione culturale ed economica. È un po’ come se chiudessero man mano tutti i teatri di prosa e lirici: gli spettatori potrebbero accedere alle commedie, ai concerti, alle opere unicamente dallo schermo della propria pay-tv. Il problema è che in genere non ci si rende conto che stiamo man mano rinunciando a qualcosa di molto importante. Però, seppur inconscia, la reazione di tendenza complessiva ci lascia ottimisti.
Dal rapporto annuale AIE (Associazione Italiana Editori) del 2017 su analisi riferite al 2016, ricaviamo i dati seguenti: la media percentuale di lettori sulla popolazione italiana si attesta al 40,5 %, in Spagna al 62,2 %, in Germania al 68,7 %, negli Stati Uniti al 73%, nel Canada all’83 %, in Francia all’84 % fino al 90% della Norvegia. In Italia, il numero di persone (con più di sei anni) che dichiarano di aver letto almeno un libro non scolastico ha ripreso a calare, con un preoccupante -3,1 %. La lettura di libri è diminuita tra i lettori deboli e occasionali del -4% e tra i lettori cosiddetti forti (cioè che leggono più di 12 libri all’anno) del -0,4 %. Luca Formenton (Il Saggiatore) afferma che il vero bacino di utenza delle case editrici italiane è unicamente quello risicato delle persone che leggono un libro al mese, considerati “forti”.A tuo parere, la lettura è veramente un problema in Italia?
Credo di sì, credo che sia un problema. Vari motivi lo causano, non ultimo la scomparsa dell’ascensore sociale collegato all’acculturazione. Anche la consuetudine di acquistare normalmente un certo numero di libri al mese è sempre più rara. La lettura di approfondimento è “fuori moda”, complice la lettura veloce e superficiale indotta dai supporti elettronici dove ormai spesso si consultano velocemente i quotidiani. Dai quotidiani, “compulsati” velocemente sullo smartphone, sono scomparsi i settori dedicati alle recensioni delle ultime pubblicazioni, per non parlare delle terze pagine dedicate alla cultura: sono state soppiantate dallo spettacolo. Per cui non si incontra il libro, se non in zone specifiche. Finché sono parte del percorso d’istruzione, le persone giovani leggono qualcosa ma interrompono non appena si laureano o si diplomano. Certo, se la scuola promuovesse l’amore verso la lettura invece dell’odio… A mio avviso, una selezione del corpo insegnanti che valutasse anche la relazione profonda con l’abitudine alla lettura sarebbe importante. Purtroppo, per ora i ragazzi sono affidati alla fortuna dell’incontro di un insegnante dotato e consapevole. Così, il settore per bambini e ragazzi è importante per l’editoria italiana, però non continuano a leggere quando crescono: rimangono perciò solamente i lettori “forti”, ha ragione Luca Formenton. Lettori forti costituiti prevalentemente in percentuale dalle donne, che leggono letteratura e fiction. Mentre gli uomini, minori in percentuale, leggono per lo più saggistica e gialli. Il settore dedicato ai viaggi va ancora bene: quando si viaggia si acquista spesso la guida Lonely Planet, che rimarrà poi in casa e fungerà da supporto mnemonico per il ricordo famigliare negli anni a venire. Funziona abbastanza tra i giovani il settore del fumetto, della graphic novel. Al tempo avevamo provato in Feltrinelli a pubblicare il genere, che in Francia era già amato con il disegnatore Mattotti, ma dopo due numeri è stato sospeso per mancanza di vendite. Ora invece, sarà per la prevalenza della comunicazione legata per lo più alle immagini, qualcosa funziona. Un settore che doveva funzionare ma che invece non è decollato è stato quello degli audiolibri. Sono acquistati ed hanno una oggettiva utilità anche come testi scolastici solamente negli istituti per non vedenti.
La lettura su supporto cartaceo rimane principale, secondo te cosa rende insuperabile la lettura del libro di carta?
Certamente la questione feticista del colore degli inchiostri, del profumo della carta, del libro intonso appena arrivato in libreria non è per me trascurabile. In secondo luogo, la questione legata all’oggetto-libro che comprende anche le scelte editoriali e di grafica: la scelta dei caratteri, il tipo, la dimensione, l’impaginazione, la riconoscibilità delle collane, l’articolazione dei cataloghi. È un universo di pensiero. In terzo luogo, per quanti sforzi di imitazione, alcuni ragguardevoli, delle tecnologie elettroniche il risultato di una pubblicazione di qualità su carta rimane indiscutibilmente superiore, di gran lunga. Anche la persistenza fisica di ciascun libro nelle biblioteche domestiche ha la sua importanza, rimangono presenti alla stregua di persone per lo più amiche e discrete. Preludono ad incontri fortuiti, a stimoli immaginativi, a nuove riletture. E poi ci sono motivazioni particolarmente affettive: Giovanni Comisso, successivamente al bombardamento su Treviso della seconda guerra mondiale, va tra le rovine a cercare i libri della sua biblioteca superstiti, come fossero dei parenti da soccorrere. Il supporto digitale non permette e non permetterà queste dimensioni, anche a motivo della propria caducità dovuta all’obsolescenza programmata. “Patologia” da cui il libro di carta è immune. È frequente ormai, anche tra mie conoscenze, l’entusiasmo iniziale delle possibilità del mezzo elettronico: «ho deciso, in vacanza non porterò più libri di carta. Nei pochi grammi del book-reader ho caricato centinaia di testi!». Regolarmente, nemmeno l’1% del centinaio di libri a disposizione verrà consultato.
Negli ultimi anni si sono consolidati con successo circuiti economici legati al mercato del libro usato: emblematico il caso di Libraccio. A tuo avviso, il successo imprenditoriale dell’usato ha condizionato le politiche editoriali e commerciali?
Sì, ma esclusivamente per il settore della scolastica. Nel senso che quando un editore di scolastica decide la tiratura dopo che ha avuto il numero delle adozioni, è già consapevole delle percentuali che saranno appannaggio del mercato dell’usato e quindi si regola di conseguenza. Nel resto dei settori editoriali l’influenza è minima: ad esempio nelle librerie di Messaggerie (IBS) che hanno accorpato anche la distribuzione di Libraccio, generalmente si vendono moltissimi libri nuovi rispetto agli usati.
Quali sono a tuo avviso, le problematiche legate alla distribuzione del libro in Italia. Ad esempio: i distributori che si inventano editori, stampatori ma anche librai che diventano editori.
Tentativi ce ne sono in continuazione, ma finisce sempre evidente che non è il loro mestiere. A parte l’esempio storico di Arnoldo Mondadori, ma erano gli anni ’30. Queste attività improvvisate non incidono commercialmente perché non hanno la concentrazione necessaria sulle problematiche dell’editoria pura. Nella migliore delle ipotesi, rimangono attività collaterali e di basso profilo.
Tra il 2010 e il 2017 le librerie cosiddette indipendenti sono calate di un buon 13%. mentre contemporaneamente le librerie cosiddette “di catena” compreso il franchising, sono aumentate del 14,6 %. Quali sono i problemi che affliggono oggigiorno le librerie indipendenti e le librerie di catena?
La prima cosa che possiamo notare è che le librerie indipendenti di tutte le città, generalmente marchi storici inseriti in un contesto urbano centrale e pregiato, si devono confrontare con gli aumenti degli affitti degli stabili che occupano. I negozi di abbigliamento, di profumi, paninoteche, etc. sono in grado di pagare affitti che il libraio non riesce a permettersi. Per sopravvivere, il costo annuo dell’affitto del locale della libreria non deve superare il 10% del ricavo complessivo. Oggi, le richieste dei centri storici superano abbondantemente la soglia di sopravvivenza. Questo, sommato al problema dell’e-commerce ed a quello del calo della lettura di cui abbiamo già trattato, costituiscono le principali difficoltà odierne del settore. C’è stato all’inizio un problema con la GDO (Grande Distribuzione Organizzata, i supermercati) alla quale alcuni editori permettevano di vendere con sconti impossibili per le librerie. Ma, nonostante gli sconti, le vendite della GDO sono calate progressivamente tanto che, nelle GDO che praticano le vendite di scolastica è frequente che concedano sconti sugli altri settori merceologici in relazione agli acquisti dei libri scolastici.
C’è differenza tra una libreria indipendente e una libreria di catena?
Sì, è il libraio. Il libraio normalmente gestisce la propria libreria in maniera originale e professionale, conosce i clienti personalmente, si permette di consigliare e non diventerà mai un franchising. D’altra parte, la libreria di catena crea, e a volte li va proprio a cercare, dei commessi non acculturati. In ragione del fatto che un commesso acculturato finisce per perdere tempo, mentre il non acculturato si limita a trovare il libro al cliente e per la libreria di catena questo è il valore: se al posto dei libri ci fossero delle saponette sarebbe lo stesso. Del resto, in alcuni aeroporti ci sono dei distributori automatici di libri. Mi è capitato di entrare in una libreria Feltrinelli a Roma chiedendo di un titolo. Si trattava di un saggio, la commessa con fare pragmatico e distaccato mi ha indicato il settore della saggistica: «Sta di sotto, …». In una libreria indipendente non sarebbe ammessa questa prassi: il libraio indipendente ti accompagna allo scaffale, trova il libro con te e intanto vi conoscete…
Un’altra domanda libresca ma commerciale, secondo te cos’è un best-seller? Cosa differenzia un best-seller da un altro libro?
Il best-seller ha la fortuna di vendere tanto e di fare la gioia dell’editore che lo ha pubblicato, il quale può adoperare le risorse generate dal best-seller per pubblicare dei libri in cui crede, per motivi personali oppure ideologici ad esempio, anche se non riescono a fare mercato. Anche l’idea di aver scoperto un autore nuovo, che diventa di successo, è motivo di grande orgoglio da parte dell’editore. Ad esempio Cesare de Michelis, editore dal notevole fiuto, ha scoperto Susanna Tamaro quando nessuno (ma nessuno veramente) le dava un minimo credito. Per una disavventura, poi il best-seller Và dove ti porta il cuore lo ha fatto Baldini & Castoldi, ma i primi libri della Tamaro sono stati pubblicati da Marsilio. Oppure la Margaret Mazzantini, o ancora la serie di Stieg Larsson, un successo commerciale clamoroso. Bisogna dire che non tutti i best-sellers si possono considerare esclusivamente dal punto di vista del successo commerciale: confesso il mio amore spassionato per Il nome della rosa di Umberto Eco. Al di là del successo commerciale gigantesco, che perdura tutt’ora, secondo me è un capolavoro perché è imperniato sui libri. La biblioteca, i libri che si parlano tra loro perché ogni libro contiene delle citazioni di un altro libro, è una questione quasi percettiva: io vedo i libri della mia biblioteca che si parlano tra di loro. Secondo me, Il nome della rosa è diventato un best-seller per tre ragioni: in primo luogo l’ambientazione medievale, in un periodo nel quale uscivano molte pubblicazioni sul Medioevo, si iniziava a parlare molto di Medioevo; la seconda ragione è che di fatto appartiene al genere “giallo”, bisogna scoprire un assassino; la terza ragione è quella a cui accennavo poco fa ed è l’argomento libro, il manoscritto, le pergamene, gli amanuensi viziosi e misteriosi, il brivido delle molteplici interpretazioni che la cultura scritta comporta, etc. In Garzanti ho visto nascere il best-seller Love Story: Lì c’era l’amore, ma anche la malattia aveva una parte importante nel suo fascino, una specie di eros/thanatos. Credo che l’IBM al tempo si fosse sbagliata: nessuno ha mai scritto un best-seller pensando alla frequenza di lessico. Per cui, penso che il best-seller non si può pianificare, lo si può solo riconoscere.
Luca Formenton individua una problematica nella gestione del libro a scaffale, nelle librerie. Egli afferma che spesso si verifica un’occupazione massiccia di spazio da parte di libri pressoché scadenti, che però vorrebbero la qualifica di best-seller. Poi regolarmente questo non avviene, il tutto però a discapito della visibilità di titoli meno ambiziosi, ma buoni e meritevoli di un successo soddisfacente. Cosa ne pensi?
Basandomi sulla mia esperienza personale, posso affermare che tutti i libri in uscita vengono comunicati al libraio circa sei mesi prima: è il libraio con le sue prenotazioni che decide della quantità che poi andrà pubblicata dall’editore. È possibile che, per vari motivi, non ultimo la quantità di titoli presenti nel catalogo, un “copertinario” normalmente di circa 200 titoli, che il rappresentante gli propone vada a prenotare una parte di libri mediocri, viziando così le quantità di stampa di libri che comunque dovranno confrontarsi con i limiti di capacità, di estensione espositiva fisica della libreria. Rimane chiaro che se un libro viene tirato in 300/500 copie, viene penalizzato ancor prima di uscire in libreria perché per forza di cose sarà presente solamente nelle librerie più importanti, e in numero di copie ridotto: una o due copie (che poi finiscono messe di taglio, assieme ad altri libri del genere). Credo perciò che a definire la situazione sia il meccanismo, più che una volontà interessata.
Caramanti, un cognome che risuona di echi arcaici…
In effetti, lavorando in editoria ho scoperto una cosa che non posso non riconoscere: in Garzanti ho fatto parte dello staff di redattori che hanno fatto i dizionari e le enciclopedie. Ad un certo punto, anche se già avevo una mia predilezione, mi si è sviluppata soprattutto la passione per lo studio dell’etimologia delle parole e della mitologia come fonte di etimologie. Frequentando dunque la mitologia, col tempo vengo a scoprire un personaggio considerato minore, meno conosciuto, dal nome Acacallide, una delle tre figlie di Minosse Re di Creta. Acacallide era molto bella e gli Déi si innamorarono di lei, la quale dapprima frequentò Hermes Mercurio. A Hermes successe Apollo, dal quale ebbe tre figli. Gli altri Déi gelosi, si arrabbiarono moltissimo. Con il pretesto di impedire la relazione tra un Dio e una mortale, anche se figlia di Re, convocano Minosse e gli impongono di eliminare la figlia Acacallide. Minosse spedisce la figlia nel luogo conosciuto più lontano dalla Grecia che era il deserto del Fezzan, in Libia. Acacallide portò con sé nell’esilio forzato il proprio figlio più amato, di nome Garamante. Garamante, cresciuto fonda il regno dei Garamanti facente capo alla capitale Garama, tutt’ora esistente col nome derivato di Germa. Il regno dura circa 800 anni e nell’anno 19 d.C. viene conquistato dai romani. Successivamente il dominio passa ai musulmani. Nel tempo dei romani, per prassi sul nuovo territorio conquistato veniva istituito un governatorato e venivano esportati gli schiavi a Roma. A Roma, gli schiavi Garamanti col tempo si evolvono e si emancipano. Virgilio nelle Bucoliche denuncia l’esproprio romano di terreni di proprietà paterna: il territorio tra Mantova e il Po che era molto paludoso viene infatti bonificato per mano di veterani dell’esercito romano ai quali viene dato in compenso un podere, oppure da schiavi affrancati che divengono in tal caso liberti. Molti di quegli schiavi affrancati erano Garamanti o discendenti di essi. A tutt’oggi, vi sono un’ottantina di famiglie Caramanti in Italia ed hanno tutte origini mantovane, ed alcune risiedono ancora in territorio mantovano. Ho trovato un Caramanti in Argentina, ed è di origini mantovana; un altro in Sardegna, ed anche lui … in pratica, noi Caramanti saremmo discendenti di Apollo…
di Andrea Oddone Martin – 5 luglio 2018
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