RECENSIONE: Agota Kristof “La vendetta”
«Tempo di uccidere», avrebbe detto Ennio Flaiano. Tempo di mettere fine all’esistenza altrui per motivi futili e inspiegabili. Tempo di crudeltà e di gesti estremi senza ragione, senza pietà, nella consapevolezza che nessuna colpa verrà punita. Il mondo che ospita questa violenza è aberrante e grottesco. L’umanità è sola, travolta da impulsi distruttivi irrefrenabili. Ecco perché nel racconto La scure di Agota Kristof è tempo di uccidere il proprio marito con una scure soltanto perché l’uomo russa ogni notte e disturba il sonno della donna che avrebbe voglia di dormire finalmente sola nel grande letto. Torna alla mente un racconto struggente di Anton Čechov, La voglia di dormire; una bambina sfinita dalla miseria, dalla fatica e dalle angherie dei padroni cerca di addormentare il loro bimbo nella culla. Ma il piccolo piange, lei è stanca e provata dalla fame, vuole solo dormire. Resiste alla fatica ma ad un tratto capisce che la sua salvezza è soltanto uccidere il povero neonato soffocandolo nella culla. Finalmente potrà dormire libera da quel fardello. Anche la donna del racconto della Kristof uccide per dormire ma con presupposti assai diversi e con distacco e noncuranza quasi fosse una banale necessità quotidiana: «è vero, ho dormito bene. Erano anni che non dormivo così…. Del resto stamattina mi sembrava tutto splendido. Mi sentivo alleggerita, liberata da un fardello che per tanto tempo…», racconta tranquilla, con la camicia da notte sporca di sangue, al dottore chiamato al capezzale del marito con la scure ancora piantata nella testa. Una spiegazione pacata, semplice, sciorinata senza alcun turbamento. Ed è questo che nei feroci libri di Agota Kristof lascia sconcertati, la totale mancanza di empatia, di rimorso o dolore per ciò che si è commesso rubando le altrui esistenze, l’ineluttabile banalità di ogni violenza e atrocità.
Ecco perché, nel racconto I professori si possono uccide quelli più amati per salvarli dalle angherie e dalla crudeltà degli altri compagni torturatori. Se si ama una persona la si vuole proteggere, ama constatare un alunno; «è per questo che, impietosito dal poveretto, dopo che i suoi allievi gli avevano assassinato una poesia, alle dodici e trenta precise, nel parco accanto alla scuola e con l’aiuto di una corda per saltare dimenticata lì da qualche bambina, ho messo fine ai suoi tormenti».
Nell’universo narrativo di Agota Kristof domina una solitudine infinita. Nei suoi venticinque racconti, brevissimi, folgoranti, raccolti nel volumetto La vendetta non c’è spazio per la pietà o il perdono. In quello che dà il titolo all’intero libro non c’è posto per il bene: «Gli sconfitti hanno incassato i colpi senza restituirli. Ma sono diventati cattivi». Chi non si vendica e non fa del male diviene dunque cattivo. Questo rovesciamento della visione del mondo attraversa tutta la sua opera.
In Un treno per il Nord, un uomo ha abbandonato la famiglia, ma il suo cane non vuole lasciarlo andare, si attacca alla giacca, tira i pantaloni e se il suo padrone cerca di salire sul treno abbaia furioso. E allora, che fare? Avvelenarlo naturalmente. Ma quando il treno finalmente arriva l’uomo bacia il suo cane ormai morto per l’ultima volta e rimane impietrito, su quel corpicino senza vita. Ora l’uomo e il suo cane sono stati trasformati in statue. «So perfettamente che non esisto. Sono di pietra, chino sul dorso del mio cane. So anche che i treni di qua non passano più». Una solitudine sconcertante avvolge questa narrazione.
Nel racconto Un bambino, un figlio odia i suoi genitori perché si rifiutano di regalargli un fucile; per lui in dono ci sarà soltanto una trottola. Sputando, piangendo e sbraitando il bambino grida al colmo dell’odio: «Quando sarò grande vi ucciderò» ed è certo che lo farà.
Una donna apparecchia la tavola con stile e ricercatezza, argenterie e cristalli, vini pregiati per i suoi ospiti nel racconto Non mangio più. E la donna ride e ride mentre i commensali si chinano voraci sul civet di lepre. E la donna ride soddisfatta. Ride, perché quella lepre non è altro, in realtà, che l’amato gatto dei suoi ospiti. E questo la diverte.
L’incipit de Il ladro di appartamenti è degno dei migliori libri e film noir e crea una forte suspence: «Chiudete bene la porta. Io arrivo senza rumore, con le mani guantate di nero», frase che si ripete più volte creando uno stato di ansia e di sinistra attesa. L’uomo giunge negli appartamenti a tarda notte quando tutte le luci sono ormai spente. Resta solo pochi istanti ma visiterà ogni casa; nessuno verrà risparmiato. Non ruberà soldi o gioielli, assicura, ma soltanto vite.
La più acconcia e acuta definizione dell’opera della Kristof l’ha scritta il grande Giorgio Manganelli in un testo ora raccolto nel volume Concupiscenza libraria (Adelphi): «un esempio di raffinata terribilità, un “orrore” dalle nervature lucidissime» ed è esattamente questo il sentimento, la terribilità, che ci coglie di fronte ad un’ altra opera della scrittrice, Trilogia della città di K. Nella prima parte, Il grande quaderno la storia allucinata di due bambini gemelli e degli omicidi perpetrati ci scaraventa «nel luogo d’incontro della malvagità e della innocenza». I gemelli vivono nella sporcizia e nella desolazione a casa dell’odiata Nonna. Lei li picchia con le sue mani ossute. E allora bisogna irrobustire il proprio corpo con esercizi quotidiani. I gemelli si prendono a pugni, si incidono le carni con un coltello, si colpiscono con delle cinture e ad ogni colpo ripetono ad alta voce «Non fa male». Poi invitano la Nonna a picchiarli più forte possibile, «Non fa male». Ma non è solo il corpo che va irrobustito in questa infanzia violenta, lo spirito non è meno importante per i due bambini. Quindi è necessario rafforzarlo. Quando la Nonna e i vicini di casa li chiamano «Figli di cagna! Porci! Piccoli merdosi! Carogne!», bisogna correre in cucina e sistemarsi al tavolo uno di fronte all’altro e insultarsi con parole atroci. Per mezz’ora ogni giorno. Bisogna abituarsi alle ingiurie e alle parole che feriscono fino a quando non faranno più male.
É un racconto di eventi crudeli che «procede con speditezza maniacale… e macchinazioni infami». La speditezza maniacale di cui parla Manganelli è la chiave dello stile della Kristof: il male ha fretta, deve esplicarsi nel mondo, l’orrore non può aspettare e le parole incalzano spedite, urtando l’una contro l’altra. Questo furore lessicale, fatto di vocali e consonanti che feriscono, cattura e pericolosamente avvince. Nell’insidioso tranello del Male è fin troppo facile cadere. Dopo appena qualche riga tutto diventa possibile, lineare, non c’è sbigottimento e per il lettore uccidere si trasforma in semplice atto quotidiano che non necessita neppure di una qualche ragione o di un movente. E questo in virtù di una lingua che lo realizza e lo rende credibile. Manganelli accosta alla Kristof lo scrittore Hartmut Lange «per un tal quale color nero che li apparenta, per una materia stravolta e variamente angosciosa, per le allusioni letali». Nella Trilogia di K., formata da Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna, tutto scivola verso la rovina dove si arriva quasi ad una pacificazione con il Male, una resa, e dove nemmeno la paura può fare paura, semplicemente perché, dichiara la Kristof in La grande ruota: «l’unica cosa che può fare paura, che può fare male è la vita, e quella la conosci già»
Patrizia Parnisari
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Agota Kristof
La vendetta
Collana L’Arcipelago Einaudi
Traduzione di Maurizia Balmelli
Einaudi Torino 2005
Brossura fascicoli legati
124 x 180 x 8 mm
75 pp
90 gr
8,50 €
ISBN 9788806173235