RECENSIONE: Anton Čechov “Reparto numero 6”

RECENSIONE: Anton Čechov “Reparto numero 6”

Čechov ben conosceva le angherie e i soprusi della vita avendoli sperimentati fin dalla più tenera età in una famiglia povera, governata dalla legge iniqua di un padre violento e tirannico. Al dispotismo del crudele focolare domestico si aggiunse quello del suo Paese quando, nel 1881 a San Pietroburgo, venne assassinato lo Zar Alessandro II, grande riformatore della Russia. Anton Pavlovič Čechov, che era nato a Taganrog, piccola città sul Mar d’Azov nel 1860, era poco più che diciottenne quando salì al trono Alessandro III che avrebbe purtroppo incarnato il dispotismo inculcatogli in buona parte dal suo tutore Konstantin Petrovič Pobedonoscev, fanatico assertore dell’autocrazia, del nazionalismo, dell’antisemitismo, dell’ortodossia. Le riforme di Alessandro II vennero abolire, la censura intensificata e la Siberia prese a funzionare a pieno ritmo. Lo zar Alessandro III fu autocrate assoluto e violento (va ricordata, per sua stessa ammissione, la smodata ammirazione di Putin nei confronti di questo sovrano e il suo anelito ad emularlo).

Questo lo stato del Paese, dove regnavano analfabetismo e miseria, quando Anton Čechov scrisse Reparto numero 6. Ed ecco che il vecchio soldato in congedo, Nikita, incarna l’ottusità e la violenza del potere fin dalle prime righe del racconto. La faccia dura, le sopracciglia spioventi che danno al viso un’espressione “da cane della steppa”, un uomo magro ma dai forti pugni, un uomo che ama l’ordine e che per questo picchia chiunque non esegua i suoi ordini o i suoi capricci. Nikita batte e percuote in modo feroce, con profondo senso del dovere perché egli è il custode della corsia n. 6 dove sono rinchiusi i pazzi. Il padiglione squallido e sporco ha più l’aspetto d’un carcere che quello di un ospedale e gli uomini lì rinchiusi paiono detenuti, non malati. C’è puzza di cavolo, di ammoniaca, di cimici; i letti sono fissati al pavimento grigio e sporco e i degenti indossano una divisa con dei berretti da notte.

Fra tanta disperazione lavora il dottor Andrej Efimyč Ragin, persona mite e solitaria; un tipo che ama pensare e riflettere sulle cose della vita. Il suo aspetto esteriore sembra contraddire la sua vera natura. Egli infatti ha un viso duro e rozzo, sembra un oste sempre sul punto di menar le mani, alto di statura, con mani e piedi enormi. Eppure il dottor Ragin vede ovunque il lato buono della vita. Vorrebbe che il manicomio venisse chiuso; non capisce per quale motivo quelle persone debbano essere rinchiuse. Sa bene che la sofferenza è necessaria alla vita ma sa anche che vivere in quel padiglione non può giovare ad alcuno. Conosce bene i suoi pazienti, uno per uno. Un ex impiegato delle poste, che stringe sempre al petto qualcosa con aria circospetta, è convinto di essere stato proposto per l’ordine di San Stanislao di seconda classe con una stella, un vero onore! E crede di essere stato prescelto anche per la Stella Polare svedese, grande riconoscimento ch’egli è certo di meritare; croce bianca e nastro nero, una vera bellezza! Così il biondino trascorre le sue giornate tra onoreficenze immaginarie, incarnazione di uno dei tanti aspetti del potere che anela all’idiozia d’un nastrino che conferisca dignità, un lasciapassare per la sopraffazione.

Tutti i personaggi segregati nella corsia rappresentano o incarnano il rapporto con l’autorità e il potere, dall’ottuso e violento custode Nikita che impone la sua stupida volontà sui malati, o chi questo potere deve subirlo. È il caso dell’ebreo Mojsejka rinchiuso nella corsia n. 6 perché quasi impazzito da quando la sua fabbrica di cappelli è andata a fuoco. È servizievole, aiuta gli altri, si dà da fare per tutti, è un brav’uomo, ma ebreo e come tale un posticino in manicomio non può essergli negato; gli spetta di diritto.

Ma è con Ivan Dmitrič Gromov che Čechov farà i conti con il potere. Il povero Gromov, ahimé, è un libero pensatore, si prodiga in discorsi sconsiderati, condanna la violenza che calpesta il diritto, la crudeltà degli oppressori. Le sue parole e i suoi pensieri sono dunque quelli di un folle. Per questo motivo Ivan Dmitrič ha il suo letto nella corsia n. 6; soffre di una grave mania di persecuzione, teme ogni cosa, si guarda attorno circospetto, vive in perenne stato di tensione; un fruscio, un grido, un piccolo rumore e Ivan Dmitrič trema, come avesse la febbre: verranno a prenderlo? dove lo porteranno, di cosa lo accuseranno? Il suo viso sempre pallido e consumato dalla paura, le sue smorfie, i suoi tic lo fanno davvero sembrare un folle, ma i suoi occhi rivelano una grande intelligenza e una profonda sensibilità. Infatti, Gromov è un uomo colto che ha molto sofferto anche se è ancora molto giovane, ha poco più di trent’anni. Ha letto molto e i suoi concittadini lo consideravano una sorta di enciclopedia ambulante; leggeva avidamente, morbosamente, in modo dissennato.

Ma qualcosa nell’esistenza di Ivan Dmitrič doveva cambiare lasciando nella sua anima sensibile una traccia profonda. Molte volte egli aveva visto per le strade della città persone portate via, arrestate e condotte a forza da gendarmi. Dinanzi a queste scene assai frequenti egli aveva sempre provato un sentimento di grande compassione. Ma un mattino passarono davanti a lui in un vicolo due prigionieri in catene scortati da quattro soldati armati di fucili. Aveva visto quella scena tante volte ma quel giorno nella mente di Ivan Dmitrič qualcosa si ruppe. Da quel momento la sua vita divenne angosciosa, cupa, non faceva che pensare ai due prigionieri: «Gli parve, tutt’a un tratto, chissà perché, che anche lui avrebbero potuto metterlo in catene e in tal modo condurlo per il fango il prigione». Comincia così quel calvario di terrore che chiunque abbia vissuto sotto un potente e schiacciante totalitarismo ben conosce. Il terrore di un arresto, di una condanna, della prigione o ancor peggio di una condanna a morte diventano ossessione e col tempo si fanno certezza nella mente del perseguitato. È solo questione di tempo, pensa Gromov, ma verranno a prenderlo. Presto inventeranno qualcosa contro di lui. Presto qualcuno si dichiarerà testimone di qualche suo misfatto. Presto, molto presto, Ivan Dmitrič lo sa, perché questa è la realtà del potere. Nel reparto n.6, la diagnosi sarà: mania di persecuzione.

Il dottor Andrej Efimyč Ragin è convinto che tutta l’opera ospedaliera sia basata «sul ladrocinio, sulla maldicenza, sul favoritismo, su una grossolana ciarlataneria, e l’ospedale, si presenta come un’istituzione immorale e al più alto grado dannosa per la salute degli abitanti». Anche se ai pazzi non si fa più indossare la camicia di forza o non si versa più acqua gelata sulla testa, pensa Andrej Efimyč, e si organizzano persino balli, giochi o addirittura spettacoli per gli internati, essi rimangono prigionieri. Ma perché, si chiede il dottore, non possono essere lasciati andare? Cosa è cambiato dunque? Nulla. E si sente colpevole per aver scelto di prendere parte a questo raggiro, a questa ignobile truffa, esercitando il suo mestiere in quell’angolo sperduto di mondo.

Ma nella sua esistenza ingannevole trova infine una ragione di vita, un sollievo. Il dottore comincia ad interessarsi alle “farneticazioni” di Gromov, ai suoi discorsi sull’autorità, sullo sfruttamento, su cosa sia giusto e cosa non lo sia. Le loro serate, a volte interi pomeriggi, trascorrono così: il dottore e il paziente seduti sul letto uno accanto all’altro a discutere delle grandi e fondamentali questioni della vita e della morte. Discorrono di Diogene, di Marco Aurelio e il dottore si palesa come uno stoico, un saggio che disprezza la sofferenza ma sa viverla senza turbamento, mentre il povero folle è tutto carne e sangue e non accetta la tesi che il medico vorrebbe fargli accettare. «Al dolore rispondo con un grido e con le lacrime, a una bassezza con l’indignazione, a una turpitudine col disgusto. Ed è questo che si chiama vita…. E se prendessimo Cristo? Cristo reagiva alla realtà, poiché piangeva, sorrideva, si attristava, andava in collera e perfino provava angoscia; Egli non andava incontro alle sofferenze col sorriso, né disprezzava la morte, ma pregò nel giardino di Getsemani che si allontanasse da Lui il Suo calice».

Presi da questi discorsi i due uomini sono ormai inseparabili. Finalmente anche in quel luogo tanto cupo e squallido c’è la bellezza della verità e la tanto sospirata libertà di pensiero! Ma la presenza ora così assidua del dottore nella corsia viene notata. Qualcosa non quadra, tutto quel parlottare è sospetto. Si comincia ad origliare, piccole delazioni qui e là, qualche sospettuccio, un pedinamento. L’ansia cresce, il dottore si sente osservato, le sue giornate stanno prendendo una brutta piega, sempre all’erta. Si fanno strani discorsi su di lui e le sue conversazioni pericolose con il folle Gromov. Che anche il dottore sia matto? Non bisognerà forse sorvegliarlo? O costringerlo alle dimissioni? Sì, gli farà bene. Potrà riposarsi. Tutti quei discorsi chissà dove potrebbero portarlo. E Andrej Efimyč Ragin si ammala. Umiliato e cacciato dall’ospedale dopo più di vent’anni di servizio, non riceve una pensione né un sussidio sia pur temporaneo. E Andrej peggiora. Si sente tradito, la sua mente vacilla, soffre di mania di persecuzione. Il giovane collega lo obbliga a ricoverarsi nella corsia n. 6. con gli altri pazzi.

Ora il povero dottore stanco e malato è alla finestra e guarda i campi. È quasi buio e la luna sembra vicina. Oltre la cinta dell’ospedale scorge un altro edificio, stretto da un muro di pietra tutto intorno. È la prigione. «Questa è la realtà! – pensò Andrej Efimyč e provò terrore».

Patrizia Parnisari

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Anton Pavlovič Čechov

Reparto numero 6

Collana Narrativa

Traduzione Alessandro Pugliese

Bibliotheka Edizioni Roma 2019

Brossura

104 pp

8,00 €

ISBN 9788869345784