RECENSIONE: Clara Dupont-Monod “Adattarsi”

RECENSIONE: Clara Dupont-Monod “Adattarsi”

È la pietra che racconta. Lei guarda e sa. Non è che un muro, ma si fa voce narrante. Davanti ai suoi occhi passano le vite di una famiglia che dimora in una casa tra le montagne francesi. Quella della scrittrice Clara Dupont-Monod, è una storia di insolita bellezza sulla malattia, una storia fatta di emozioni delicate, dove un comune sentire di dolore e tenerezza avvolge coloro che ne fanno parte: un padre, una madre e i loro figli. In Adattarsi nessuno ha un nome; la pietra che racconta li chiama semplicemente il padre la madre, la figlia minore, il figlio maggiore. I rossi mattoni della corte amano i bambini che dinanzi a loro giocano e corrono. «Incassate nel muro, sovrastiamo le loro vite. Da millenni siamo le testimoni. I bambini sono sempre i dimenticati di una storia. Vengono infilati dentro come minuscole briciole… ma i bambini sono gli unici a scambiare le pietre per giocattoli». La felicità e l’orgoglio, il privilegio, d’essere balocco per quelle piccole vite messe da parte, le spinge a raccontare le loro storie e quelle di una famiglia attraversata da penosa anomalia.

Regna una vita serena in casa fino a quando l’arrivo di un terzo figlio infrange la piccola felicità. Il bimbo non è che corpo molle, sguardo vuoto e cieco, gambe senza movimento, testa grande che ciondola e non possiede forza; è il fratellino inadatto, difettoso, incompiuto. Non è destinato a condurre un’esistenza normale. Egli è inerte, fatto di vita appena accennata; soltanto «pianto, sorriso, cipiglio, sospiro, sussulto». I suoi occhi non sanno posarsi su persone o cose, le sue pupille fuggono, roteano, scorrono la superficie d’ogni concretezza. Difficile capire cosa provi; eppure, di tanto in tanto, lo coglie un sussulto, più spesso un accenno di sorriso. Ma questo è tutto, spiega il dottore: il bambino sarebbe rimasto cieco, non avrebbe camminato, né parlato, non sarebbe stato che vita e sembiante d’un neonato, un infante grottesco. Poi, nel breve giro di due o tre anni avrebbe, cessato di vivere.

Nell’abisso che avvolge la famiglia, in quel dolore senza futuro, si farà stoicamente carico del bambino incompiuto il fratello maggiore che incarna la pietà, la commozione, la protezione amorevole per il più debole. La Cura diviene lo scopo della sua esistenza; rinuncia a tutto e si pone al servizio costante del bene. Sarà una genuflessione al dolore ma da esso riceverà la preziosa e severa lezione dell’essenzialità dell’esistenza, dell’essere parte di una dimensione profonda che lo conduce nel fulcro stesso della vita. «C’era qualcosa che lo toccava, un messaggio arrivato da lontano che richiamava la quiete delle montagne, la presenza immemore di una pietra o di un corso d’acqua, la cui esistenza bastava a sé stessa. Agiva in lui la sottomissione alle leggi del mondo e ai suoi incidenti, senza ribellione o amarezza. Il bambino era lì come una zolla di terra». Nella devozione incondizionata al calvario del malato cui dona il suo stesso cuore, i suoi occhi, il suo passo, la sua stessa parola, si compie e si consuma l’epifania della pietas più profonda.

Ma questa salvifica simbiosi viene distrutta e calpestata dalla realtà che incombe. Arriva il giorno triste della separazione; il piccolo è cresciuto e la sua salute peggiora rendendogli la vita sempre più difficile. Neppure la dedizione e l’aiuto del fratello bastano più. Anche l’istituto in cui viene, con grande riluttanza, ricoverato riesce a farsi carico della complessa invalidità da cui è afflitto.

Che farsene allora di quel corpicino deforme e problematico? Chi potrà seguirlo e curarlo? La ricerca di un luogo nel quale questo possa avvenire si fa assurda e atroce: la burocrazia prende il sopravvento sulla pietas e tutto diventa crudele e irreale. La solitudine di chi è confinato nella malattia e nella disabilità diventa insopportabile, rabbiosa. È un mondo raccapricciante che riduce all’impotenza. Una solitudine scandita solo da «maratone burocratiche». La famiglia vaga frastornata «nei municipi, nei servizi sociali, nei posti teoricamente dedicati all’aiuto alle famiglie, nei ministeri, gli ficcavano la testa sott’acqua, moltiplicando le difficoltà. Il percorso era glaciale, inumano, costellato di acronimi, MDPH, ITEP, IME, IEM, CDAPH». Vengono introdotti in stanze cupe e grigie in cui una giuria ha il potere di erogare o meno un sussidio, imponendo interrogatori umilianti per dimostrare e descrivere le difficoltà quotidiane per accudire il bimbo invalido. E poi cartelle, certificati, visite mediche, moduli da riempire per avvalorare il dolore, renderlo plausibile. Se il dolore non è ritenuto sufficiente nulla verrà erogato. Quanta sofferenza è necessaria per ottenere un certificato che possa salvare dalla povertà? Sui moduli non è scritto perché tutto è a discrezione dei medici, del giudice e persino degli impiegati. Ma se pure si riuscisse ad ottenere il giusto lasciapassare per l’aiuto esiguo previsto si farà strada una beffa ulteriore: l’obbligo di dover provare, ogni tre anni, che il bambino é ancora disabile, come se l’essere invalidi fosse un processo reversibile.

La piccola famiglia è stata fagocitata e assiste impotente alla rovina di altri genitori resi quasi folli da un documento sbagliato o mai arrivato, da un ricorso, un’ingiunzione, un modulo che sbarrano ogni percorso. Una coppia riceve un verdetto grottesco per il figlio: «non era abbastanza inadatto da beneficiare di aiuto, ma troppo per sperare di essere inserito». Il mondo distorto che vive di crudeltà raccontato da Clara Dupont-Monod sembra uscito da un film di Ken Loach. Nessun aiuto, nessun conforto, nessuna possibilità di entrare in relazione con l’inferno burocratico. «I genitori scoprirono la grande terra di nessuno dei margini, popolati di esseri senza cure né progetti né amici».

Patrizia Parnisari

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Clara Dupont-Monod

Adattarsi

Traduzione di Tommaso Gurrieri

Edizioni Clichy Firenze 2022

Bossura fresata

141 x 209 x 13 mm

210 gr

158 pp

17,00 €

ISBN 9788867999262