RECENSIONE: Gustaw Herling “Ritratto Veneziano”
Nella stesura dei 16 racconti di Ritratto veneziano Gustaw Herling si avvale del procedimento utilizzato da Dostoevskij nel Diario di uno scrittore; un’opera “sperimentale” anche sul piano stilistico che unisce il saggio all’invenzione letteraria, la riflessione filosofica alla cronaca. Lo scrittore polacco si sottrae dunque alla tradizione del diario egotista che si afferma tra Stendhal e Gombrowicz.
Un falso dipinto di Lorenzo Lotto è il fulcro del racconto Ritratto veneziano che dà il titolo all’intero volume. Qui memoria autobiografica, memoria storica e mondo soprannaturale si uniscono in una tempesta caotica e violenta. Nel sembiante dell’uomo dipinto nel quadro si palesa il volto del Male, un volto «duro, spietato, con due tizzoni ardenti al posto degli occhi» sospinto «dall’irrefrenabile bisogno di infliggere il Dolore».
La narrazione assume una connotazione ancor più irreale snodandosi tra le calli veneziane. Ma Herling ridipinge con proprie tinte visionarie una città che egli non amava vedere con gli occhi di Morte a Venezia di Thomas Mann o con quelli della regia di Luchino Visconti. Il suo è uno sguardo più inquietante, lo consideriamo più vicino a quello della Venezia salvata di Simone Weil.
La storia del falso ritratto può anche essere vista, per ammissione dello stesso autore, come una versione contemporanea del racconto veneziano di Henry James, The Aspern papers. Il richiamo esplicito a James ritorna in modo ancor più pregnante nell’ultimo racconto del volume: Cimitero del Sud. Qui Herling spiega il procedimento di scrittura e la scelta di comporre dei racconti incompiuti, dal finale aperto, come appunto quelli di James. In particolare si serve di quell’atmosfera di stordimento e intorpidimento in cui si manifesta lo “sguardo altro”, descritto in Giro di vite. Attraverso questo sguardo si mostrano dettagli e particolari che nello stato di veglia non sono visibili ma che diventano forieri di presagi, misteri e sinistri accadimenti.
Alle descrizioni o alle personificazioni del Male operate dallo scrittore polacco manca l’aspetto macabro, al limite dell’ossessione raccapricciante e spettrale di certi racconti fantastici della tradizione romantica. Anche se Satana s’impossessa di luoghi, persone e oggetti come avviene nel racconto Il cofanetto d’argento ed è roso da una terrificante e fosca tinta nera, lebbra del Principe delle Tenebre, Herling riesce ad attestarsi su una linea in cui realtà e sovrannaturale trovano una felice mediazione in un’ironia estrosa. Il suo sguardo è spalancato sul Male, ma con tranquillità e pacatezza; egli si limita a prestargli la propria voce come in una delle narrazioni più riuscite, Breve confessione di un esorcista il racconto più dostoevskiano di tutta la raccolta, in cui sono presenti, come ne I fratelli Karamazov, il tema della confessione, quello dello stupro, il tentativo di parricidio, l’epilessia. Un vecchio esorcista, utopista deluso e uomo molto anziano, come il Grande Inquisitore di Dostoevskij, guardando nell’abisso del proprio passato si dichiara, di fatto, innamorato del Male.
All’inizio della propria dichiarazione, l’esorcista cita un passo delle Confessioni di Sant’Agostino: «Come è possibile che al Male mi abbia spinto soltanto il Male medesimo. Era ripugnante, ma lo amavo, amavo la mia rovina, la mia caduta. Non amavo ciò verso cui cadevo, ma la caduta per se stessa». Un uomo cresciuto nel Male e nella paura e che da questi non sa e non può liberarsi; un uomo solo, stanco, mutilato non soltanto nell’animo, ma anche nel corpo affinché il Maligno possa, attraverso segni esteriori e visibili, far bella mostra di sé e della propria vittoria. La confessione dell’esorcista è il tentativo ultimo di un uomo che, in punto di morte, vuole uscire dall’orrore del silenzio e della propria reclusione, per esprimere, al confine tra la parola ed il silenzio, «una confessione sussurrata alle menti, confusa, interrotta».
E di nuovo la morte e il Male sono protagonisti e signori de Il Secondo Avvento un suggestivo racconto medievale in cui epidemie, supplizi, processioni, fanno da sfondo alla storia di un eretico che perde la ragione a causa delle torture inflittegli nel supplizio finale e che nel momento estremo assume le sembianze del diavolo. Col volto coperto di sangue e un folle sguardo, erompe in una risata e in una danza sinistre e forsennate fino a trasformarsi in un «diabolico buffone che minaccia il cielo e gli uomini», simile in questo al Satana della Storia politica del diavolo di Daniel De Foe, al quale gli uomini addossano tutti i propri crimini quasi che la storia fosse stata forgiata da una sorta di malleus maleficarum. Come lo scrittore inglese, che conferiva al diavolo il titolo ossequioso di “Reverendissimo Storico”, Herling con un atteggiamento ugualmente disincantato, sembra ironicamente rifarsi all’idea espressa da De Foe che, attraversando epoche diverse, «il Diavolo si dia da fare in qualità di storico, per il nostro arricchimento e svago».
Dell’eretico di Herling non rimarrà che una lacrima di ferro, una croce minuta fusa in una pallina. In questo racconto anche i luoghi assumono connotazioni religiose, sante o dannate, angeliche o demoniche e persino la luna piena è «un’ostia sospesa sul firmamento». Herling utilizza parabole apocalittiche con uno sguardo retrospettivo nella storia in cui l’unico Secondo Avvento possibile sembra essere quello del Male.
All’angelismo freddo della malafede, egli vuole contrapporre ancora una volta il demonismo caldo di chi sa e vuole guardare giù nell’abisso. Lo ribadisce anche nel tenero e delicato racconto Il ponte in cui facendosi guidare da Kafka, Herling mostra un’umanità ubriaca e dannata, cieca e disperata.
Patrizia Parnisari
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Gustaw Herling
Ritratto Veneziano
traduzione Mauro Martini e Donatella Tozzetti
Collana I Narratori
Feltrinelli Milano 1995
Brossura
143x221x21 mm
319 pp
375 gr
ISBN 9788807014932
€ 18,00