RECENSIONE: Ivan Gončarov “Oblomov”
Quando nel 1979 il grande regista russo Nikita Sergeevič Michalkov girò Qualche giorno della vita di Oblomov, si addentrò in un’impresa assai rischiosa; come avrebbe potuto dare forma ad un classico perfetto come il romanzo di Ivan Aleksandrovič Gončarov, Oblomov, scritto 1855 ? «Ho pensato a lungo che, se fossi riuscito a girare Oblomov, lo avrei fatto in modo estremamente letterario… assegnando un altro peso alla parola». Il film si servirà infatti di un testo fuori campo, con ampi brani di prosa, «e alla fine di questi testi sentiremo come se qualcuno sfogliasse le pagine». (S. Borelli, Nikita Mikhalkov). Con il suo bellissimo film Michalkov recupera un capolavoro della narrativa russa ottocentesca riproponendo una riflessione su un tema chiave della cultura di questo Paese: l’oblomovismo. Il termine russo oblom significa punto di rottura e il protagonista del capolavoro di Gončarov viene investito appieno del suo significato, come punto di divaricazione e rottura tra due mondi quello di Oblomovka, il villaggio da cui Il’ja Il’ič Oblomov proviene e quello al quale approda e che lo sovrasta, la città di Pietroburgo.
Nell’agglomerato urbano ogni cosa si palesa in modo diverso e atroce. È lì, su quel punto di confine che si consuma la tragedia e si raggela la volontà. Egli sente d’amare l’antica e mite utopia più di se stesso, fino al sacrificio della propria persona, fino a castrare il proprio intelletto, le proprie capacità, le azioni, la vita stessa. Il calore della lunare Oblomovka è così divampante che, al di fuori di essa, tutto si raggela e diviene brina e solitudine. Egli non riesce a placare il freddo che lo divora: vive avvolto tra coperte e pellicce, si trascina nella propria vestaglia in cerca di quel tepore che non può più trovare. Anche il regista ce lo mostra fin dalla prima, lenta, soffice, inquadratura, coperto di pesanti coltri, sdraiato nel proprio letto mentre invoca faticosamente, quasi con un reiterato lamento privo di speranza e ragione, la presenza del fedele e amato servitore Zachar. Quel letto sfatto, ad ogni ora del giorno e della notte, accoglie Oblomov in un abbraccio che fuori dall’infanzia di Oblomovka non è più possibile. La tragedia della sua vita dimora proprio lì, in quel villaggio, simbolo di un’età e d’un sentire ormai prossimi a lasciarlo per sempre. In quell’infanzia prolungata fino allo stremo che ne fa quasi un enorme feto incompiuto e lo conduce ad un totale collasso di volontà, ad una condizione spossata di abbandono.
Il’ja Il’ič ha creduto nell’immortalità di Oblomovka dove il tempo era sospeso e rarefatto, e ora divenuto adulto il rapporto con il tempo reale si è fatto angoscioso e incomprensibile. Egli non può e non sa costruire un tempo a più dimensioni. Tutta la propria esistenza è ancora tesa al passato. La tragedia dell’abbandono è nello sradicamento; egli ha lasciato la propria utopia, si è trasferito a Pietroburgo, in città, e lì ha cercato una nuova vita. Ma ora non sa più procedere, ma al tempo stesso, non può tornare indietro. Come potrebbe? È ormai avvenuta una sorta di violazione, o meglio di vera e propria profanazione del tempo che ha perduto la propria sacralità. Come ne Il sogno di un uomo ridicolo di Fëdor Dostoevskij, Oblomov vede la felicità nell’utopico villaggio, sa che non è più possibile in un mondo reale, ma non sa partirne. Al contrario, nell’uomo ridicolo, che pure ha visitato l’utopia, ma prevale alla fine la nostalgia per la terra e per la “vita autentica”, in Oblomov sopravanza la nostalgia per il sogno. Gli occhi restano fissi, spalancati sul passato, preda dell’esilio della vita e, come scrive Josif Brodskij a proposito dell’uomo in esilio: «Come i falsi profeti di Dante, il nostro uomo ha la testa perpetuamente rivolta all’indietro e le lacrime, o la saliva, gli scorrono giù dalle scapole». Oblomov ha d’un tratto perduto se stesso e la sua volontà è rimasta impietrata per sempre. Schopenhauer scriveva che là «dove c’è volontà c’è anche vita e mondo» ma Il’ja Il’ič ha perduto questo vitale pungello e affonda nella noluntas; non conosce più processo dialettico, non decide, non sceglie poiché è guidato da un’oscura malinconia, da una nostalgia feroce.
Non è un caso che il suo antagonista sia il personaggio di Stolz tipico rappresentante della modernità, dell’Occidente, che tenta con ogni mezzo di recuperare il suo amico alla vita e all’azione. Di origine tedesca, ha anch’egli nel proprio nome il proprio destino: Stolz, infatti, in tedesco sta per fierezza, superbia. Egli rappresenta l’atteggiamento dinamico, superbo e pratico verso la vita, che vince sull’atteggiamento contemplativo; «sopra ogni cosa egli temeva l’immaginazione, questa compagna bifronte… Temeva ogni sogno.. procedeva sempre con la stessa ostinazione… non si smarriva mai nelle circostanze difficili». Stolz incarna la capacità di fare le cose, il movimento, il divenire. «Ma come poteva – si domanda lo stesso Gončarov – un uomo come quello essere intimo di Oblomov, di cui ogni tratto, ogni passo, tutta l’esistenza era un’urlante protesta contro la vita di Stolz ?». Si ribella Il’ja Il’ič al vivere che l’amico conduce, alla società pietroburghese, alla città dove gli uomini si dimenano tra mille attività, balli, serate, pranzi, ma in cui nessuno ha un proprio centro, nessuno cerca la verità, né il bene: «No, una simile vita non la voglio», urla Oblomov. Il confronto serrato tra i protagonisti del romanzo viene reso anche nel film di Michalkov nella scena in cui i due discorrono in una sauna tra campi coperti di neve. Lì si palesa tutto l’abisso tra passato e futuro, tra due opposte culture, tra occidente e oriente, fra modernità e tradizione. Lì si assiste alla totale e definitiva vittoria degli Stolz e le lacrime di Oblomov segnano la sua più profonda abdicazione.
Nel momento in cui gli slanci, il bello e il sublime, le frenesie romantiche si spengono e l’anima bella di Il’ja Il’ič si affloscia e si svuota, conscia dell’avanzare crudele e poderoso della mediocrità, egli si inebetisce e si abbuia in un altrettanto crudele e letifero sonnambulismo. «Si sentì triste e addolorato per l’insufficiente sviluppo e l’arresto delle sue forze morali, per la pesantezza che gli era d’impedimento a tutto… L’intelletto e la volontà erano da un pezzo paralizzati e, a quanto pare, irrimediabilmente… Eppure aveva la dolorosa percezione che in lui fosse racchiuso, come in una tomba, un principio buono e luminoso».
Egli possiede una potente coscienza individuale, ma non sa cosa sia una coscienza collettiva o sociale; è dunque un uomo superfluo. A differenza dei suoi predecessori, i vari Oneghin, Rudin, Peciorin, Bel’tov, Oblomov è superfluo anche a se stesso: «Dal primo momento che ho avuto coscienza di me stesso, ho sentito che mi spegnevo», dichiara.
In La distruzione della personalità Maksim Gor’kij descrive l’uomo superfluo come un elemento pericoloso per la vita stessa; lo definisce “erba strisciante” che cresce a dismisura, formata da individui dalla volontà completamente distrutta, che non nutrono speranze né più desideri; una palude sporca nella quale possono attecchire soltanto deboli betulle e bassi pini, ma dove non c’è posto per la maestosità della quercia. Questi uomini sono per lo scrittore russo, la maledizione dell’universo; sordi alle voci vitali. Ma la tenue, fioca volontà di Oblomov è flebile volontà di betulla, che non anela ad essere quercia. «L’uomo superfluo non fa mistero della propria inconcludenza, ma la dichiara apertamente, contrapponendola sia all’attivismo modernista di stampo filo-occidentale sia a una reazione che si finge statica riparandosi dietro il baluardo di una tradizione in realtà tradita. È la superfluità l’unica autentica figura della Russia tradizionale, sicuramente l’unica possibile dopo l’impatto col moderno» (Patrizia Parnisari, Russia, un populismo senza nazione).
Il capolavoro di Gončarov è dunque un punto di non ritorno non soltanto per la cultura russa ma anche per quella occidentale. Dopo Oblomov, ultima coscienza pura, l’uomo superfluo si trasformerà nell’ uomo del sottosuolo di Dostoevskij. La passività di Oblomov diventa nel personaggio dostoevskiano, risentimento; l’ironia si trasfigura in cinismo; il sorriso fanciullesco di Il’ja Il’ič si accupa nel riso divoratore che risuona nell’universo immalvagito e oscuro del sottosuolo. L’abbandono si è trasfigurato in malattia: «Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso». Dal sottosuolo non c’è ritorno, l’isolamento è totale e l’esistenza si trascina in un angolo polveroso di mondo. È la condizione tragica dell’uomo che ha perduto definitivamente se stesso. Quella stessa coscienza tragica che giungerà sino ai grandi malati di Thomas Mann e di August Strindberg, a L’uomo senza qualità di Robert Musil, all’uomo del magazzino divorato dall’ossessione cartacea di Bohumil Hrabal. fino ad arrivare all’uomo della fornace e della torre di Thomas Bernhard. La claustrofobia dell’anima che dal sottosuolo giunge fino a Bernhard frantumano non soltanto la mente, ma anche il linguaggio. Già Musil aveva avvertito questa ferita nel filo della narrazione dalla quale non c’era più ritorno e Bernhard, infatti, porta questa ferita del linguaggio al limite più estremo. Egli erige i luoghi dell’impossibile, dell’irrespirabile con le pietre e i mattoni dei respiri soffocati e dei pensieri compressi, dove i protagonisti dei suoi capolavori sono sempre presenti alla propria coscienza malata. Non c’è più l’armonioso divallare del pensiero di Il’ja Il’ič, né possibili utopie. La coscienza di Il’ja Il’ič era pura, non soffriva di risentimento né invidia verso altre esistenze; in lui era racchiuso «un principio buono e luminoso», che si nutriva ancora della levità dell’utopica mansuetudine, della sua rassicurante «Città del sole», del boschetto di betulle, dove tutto era silenzio. Lì c’è un sereno angoletto, un pertugio benedetto da Dio, dove non ci sono sogni e realtà spaventose, dove non vige il male e si vive lontano da ogni possibile modernità e dalle sue insensate, mortifere follie. Dopo Oblomov tutto il pensiero occidentale corre inesorabilmente verso la catastrofe di una coscienza occidua, pietra angolare della modernità.
Patrizia Parnisari
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Ivan Aleksandrovič Gončarov
Oblomov
a cura di Paolo Nori
Collana Universale Economica. I Classici
Feltrinelli Milano 2014
Brossura
574 pp
12,00 €
ISBN 9788807901225