RECENSIONE: Jules Verne “Claudius Bombarnac”
La quantità della produzione letteraria di Jules Verne è formidabile. Peraltro, dal 1863 l’editore vincolò Verne alla stesura di tre romanzi l’anno per i vent’anni a venire, così oggi il catalogo dello scrittore bretone presenta numeri ragguardevoli. I romanzi di Verne sono sempre stati considerati generalmente una letteratura per ragazzi, forti della fantasiosa immaginazione del loro autore unita all’intento divulgativo di «descrivere tutte le conoscenze geografiche, geologiche, fisiche ed astronomiche accumulate dalla scienza moderna e raccontate in una forma divertente e pittoresca» caldeggiato dall’editore.
Fin dall’inizio, la passione dei lettori per questi romanzi fu trasversale. Passione giustificata che, nonostante la manifesta appartenenza al XIX secolo, perdura tutt’oggi. Infatti, l’anacronismo delle opere di Verne non eclissa l’entusiasmo progressista ottocentesco di cui sono permeate, il quale primeggia in ogni sua opera. La velocità con cui potevano essere coperte distese chilometriche impensabili, le tecnologie per viaggiare che in quel periodo si diffondevano alacremente nell’intero mondo terracqueo, piroscafi, palloni aerostatici, immersioni, convogli, innovazioni nella riproduzione delle immagini (Nadar fu grande amico di Jules Verne), l’evoluzione e la diffusione delle tecnologie della comunicazione. L’Ottocento è stato determinante nella prevalenza dell’orientamento tecnologico del secolo successivo, orientamento che ebbe in Jules Verne il suo cantore. Fu la sua fantasia a promuovere l’eccitante fascino delle scoperte, dell’applicazione tecnologica.
Tuttavia, nei suoi romanzi traspare una posizione nostalgica, non passiva ma critica, in cui si valuta il prezzo dell’avanzata tecnologica. In un passo di Claudius Bombarnac, avventuroso romanzo scritto nel 1893 e pubblicato l’anno successivo, il protagonista, dopo aver celebrato la grandiosità dei trasporti ferroviari su cui viaggia, afferma: «Dopo l’istituzione delle ferrovie transasiatiche è raro incontrare ancora quelle interminabili sfilate di cavalieri, pedoni, cavalli, cammelli, asini, carri. Bah!». E poco più oltre: «Non c’è più il fascino del viaggiare in diligenza, in troika, in tarantass, con l’imprevisto della strada, l’originalità degli alberghi, il cicaleccio delle stazioni di posta, la bevuta di vodka degli yemtchiks … a volte l’incontro di quegli onesti briganti la cui razza finirà per estinguersi…». Gli fa immediatamente eco un agente di commercio americano, emblema di efficienza e di prosaicità: «Signor Bombarnac, ma rimpiangete seriamente queste cose?». Successivamente, il protagonista Bombarnac si sofferma sulle conseguenze psicologiche dell’umanità ipertecnologizzata: «Le idee di un uomo che va a cavallo sono diverse da quelle di uno che va a piedi. La differenza è ancora più notevole quando egli viaggia in ferrovia. L’associazione dei pensieri, il carattere delle riflessioni, il concatenarsi dei fatti si svolge nel suo cervello con una rapidità eguale a quella del treno. Si “corre” nella testa, come si “corre” nel proprio scompartimento». Più avanti, un accenno tra profezia e speranza: «Le ferrovie finiranno con il ridurre i paesi che attraversano a un livello comune e a una comune somiglianza, sarà l’eguaglianza e forse la fratellanza».
Le parti migliori della scrittura di Verne risiedono nelle descrizioni delle persone, degli ambienti, delle usanze, delle geografie, delle località, dei protagonisti. Descrizioni accurate, tese all’esotismo palpitante di un paesaggio vivente, di una concretezza opposta al dissolvimento digitale odierno: «Ho avuto modo di ammirare alcuni magnifici lesghiani con la tcherkeska grigiastra con cartuccere sul petto, il bechnet di seta rosso vivo, le ghette ricamate in argento, le scarpe piatte senza tacco, il papakha bianco in testa, il lungo fucile di sbieco sulle spalle, lo schaska e il kandjar in cintura, in breve veri uomini arsenale, come ci sono gli uomini orchestra, ma di aspetto magnifico e che devono fare splendido effetto nei cortei dell’Imperatore di Russia»; e ancora: «Sopra il mio capo le nubi si danno la caccia disordinatamente e con estrema rapidità: attraverso i loro squarci scintillano alcune costellazioni: ecco Cassiopea, a nord l’Orsa minore, allo zenith, la stella Vega della costellazione della Lira».
Il valore attuale della letteratura di Verne si scopre nell’individuazione e nella difesa di un rapporto concreto con il circostante, per quanto fantasiosa sia la situazione in sé. A nostro avviso, i romanzi di Verne mantengono tutt’oggi il loro successo alla stregua delle vicende del Maigret di Simenon, oppure del Poirot di Agatha Christie, proprio per questa ostinata e radicata concretezza del reale, in aggiunta al fascino dell’umanità più o meno criminale e all’incanto esotico e lussureggiante della fantasia dell’autore. Le sezioni dei romanzi di Verne spronano la fantasia del lettore nella raffigurazione, nella creazione di immagini succulente e colorite, nell’immedesimazione climatica della situazione come se, correndo sulla banchina della stazione con in mano il biglietto appena acquistato, salissimo sul treno con il reporter Claudius Bombarnac alla volta di Pechino.
Andrea Oddone Martin
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Jules Verne
Il castello dei Carpazi – Claudius Bombarnac
Collana Corticelli-Hetzel
Traduzione Giuseppe Mina, Giuseppe Castoldi
Tavole Léon Benett
Ugo Mursia Editore Milano 1992
Rilegatura cartonata fascicoli legati
162 x 230 x 26 mm
610 gr
310 pp
13,30 €
ISBN 9788842511748