RECENSIONE: Mathijs Deen “La nave faro”

RECENSIONE: Mathijs Deen “La nave faro”

Se le acque del mare attorno alla costa sono troppo profonde la costruzione di un faro non potrà avere luogo. Le navi resteranno così alla mercé di tempeste, tifoni, piogge torrenziali e fitte nebbie. Per questo, nel 1732, Robert Hamblin progetta una nave-faro. Su di uno scafo di un rosso acceso, fa montare un apparato luminoso molto potente, non troppo diverso da quello installato su un faro in terra ferma. Ma a differenza di questo, le navi faro sono fornite di equipaggio che vive una strana dimensione: un limbo spesso drammatico. Lo racconta lo scrittore olandese Mathijs Deen nel breve romanzo La nave faro edito da Iperborea. Questa imbarcazione non salpa, non può partire, non ha dove andare; il suo compito è restare ancorata e far funzionare la grande luce del faro. Per questo un senso di vuoto e sospensione, di inutilità, agita gli animi. Un unico desiderio: andare via prima possibile da quel luogo maledetto. E così aspettano giorno e notte che un nuovo equipaggio venga a dar loro il cambio.

Quel momento agognato è chiamato da tutti il “Grande Cambio”, ma non altrettanto lo è per l’equipaggio che prenderà regolarmente servizio al loro posto per mezzo della nave Zaandam, un’imbarcazione posa-boe con una gru che può mettere in mare o riportare a bordo qualunque cosa. Nessuno vuol tornare sulla Texel e i turni sembrano infiniti. Fonte di paura e angoscia quella nave senza scopo e senza vita fiacca l’animo di chiunque debba soggiornarvi. «Una nave faro non ha un’elica, non ha un motore, sul ponte di comando non c’è un timone; non può far altro che ondeggiare, un po’ sconsolata, un animale che tira invano una catena», scrive Mathijs Deen. Per gli uomini dell’equipaggio altro non è se non una prigione ancorata al largo della costa olandese.

Il protagonista Lammert, il cuoco della nave, uomo rude e di poche parole, un giorno introduce un elemento che sovvertirà parte dell’ordine delle cose. Avendo deciso di cucinare un piatto della sua infanzia il gule kambing, pietanza indonesiana a base di carne di capra, verdure e spezie, cotto in latte di cocco, sbarca a terra durante il “Grande Cambio”. Al suo ritorno, Lammert porterà con sé un capretto, comprato in un villaggio tra i campi. Quando al ritorno, sacco in spalla e il capretto legato ad una corda, l’uomo si avvicinerà alla nave ci sarà burrasca e forte vento e il piccolo sarà recalcitrante, spaventato e inquieto.

Ma la legge del mare impone di non imbarcare animali vivi perché, vuole la tradizione, portano male, sfortuna, sinistri presagi. Aggirando il divieto, il cuoco ottiene il lasciapassare dal capitano in quanto il capretto altro non è se non una derrata alimentare e presto verrà sgozzato. Nella cambusa il cuoco ammonisce il piccolo: «Che tu abbia voglia di scappare lo capisco. Ma da qui non puoi. Non c’è niente da fare, qui siamo tutti prigionieri. Anche tu».

In realtà, questa insolita, nuova presenza porterà profonda inquietudine e destabilizzerà l’equipaggio. Alcuni ravvisano nel piccolo animale una presenza diabolica, destinata a sconvolgere definitivamente un equilibrio già precario. Ma il capretto che dovrà essere macellato non avrà il ruolo di agnello sacrificale come potrebbe inizialmente sembrare, pur possedendo tutte quelle caratteristiche che Joseph de Maistre considerava essere peculiari della vittima sacrificale, gli animali cioè «più preziosi per la loro utilità, quelli più miti, più innocenti, quelli maggiormente in rapporto con l’uomo», in questo caso il capretto.

Al contrario, verranno ravvisati in lui, i connotati del maligno: le piccole corna, gli zoccoli e soprattutto gli occhi da rettile con le pupille verticali. O almeno questo è ciò che percepiscono a bordo mentre il vivace e innocente capretto scorrazza in giro per l’imbarcazione nascondendosi in ogni anfratto per non essere catturato e ucciso. «La nave beccheggiava tra le onde che spuntavano dalla notte, il ponte si alzava e si abbassava, ma ormai il capretto sapeva stare a bordo come un vecchio marinaio». Il piccolo si adatta alla vita di mare ma con un prepotente anelito alla libertà; scalcia, scappa, si sporge pericolosamente per guardare il mare in lontananza e la terra vicina. In questo incarna il bisogno di libertà anche dei marinai a bordo.

Una nave in darsena, assediata da muri e banchine non è che una fortezza, un baluardo, e come tanti altri fortilizi e prigioni letterarie assume e riassume in sé tutte le simbologie, le allegorie e le metafore dei luoghi chiusi al mondo. Prigionieri, impietrati, essi non conosco davvero il mare, l’oceano «impenetrabile e senza cuore» di Joseph Conrad. È come se su quei ponti e quelle tavole di legno si svolgesse una rappresentazione dell’esistenza in mare. Uomini menzogneri incarnano qualcosa che non possono vivere.

Queste povere anime senza pace, sono anime del Limbo, vivono in uno stato ibrido; il limbo è il lembo, l’orlo e indica una condizione non ben definita. Oppressi da questo paradosso sulla nave faro che perennemente ancorata al largo delle coste, non solcherà mai le onde né attraccherà in un porto straniero, ma come una fortezza contro gli uragani resiste per indicare la via alle imbarcazioni in transito. Quando poi giunge la nebbia, fitta e oppressiva, che smorza il vento, dissipa ogni suono, pietrifica il moto delle onde, la nave faro viene circondata e inghiottita. La Texel diventa «un animale inerme, incatenato, accerchiato», scrive Deen.

C’è molto della lezione di Conrad in questo piccolo libro per l’atmosfera spesso così opprimente, per la tensione che si avverte, la descrizione dell’infittirsi della nebbia, la descrizione di un personaggio come Lammert, tutta l’irrequieta vita dell’equipaggio: «Il mare – avvertiva Conrad – non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza».

 Patrizia Parnisari

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Mathijs Deen

La nave faro

Collana Gli Iperborei

Traduzione Elisabetta Svaluto Moreolo

Iperborea Milano 2022

Brossura fascicoli cuciti

101 x 199 x 13 mm

148 pp

130 gr

15,00 €

ISBN 9788870916515