RECENSIONE: Michael Kimball “E allora siamo andati via”
Tra le molteplici forme di raccontare la realtà, quella dei bambini è senza dubbio la più bizzarra e insolita. Nella maggior parte dei casi, i verbi si mostrano al presente indicativo con ripetizioni, affastellamenti e incongruenze a ribadire una realtà che c’è e che non c’è. Nell’inquietante libro di Michael Kimball, E allora siamo andati via, a narrare sono proprio due bambini; fratello e sorella. In modo insolito e straordinario l’autore fa usare ai due piccoli personaggi un linguaggio “infantile” che alterna crudeltà e passione, verità e menzogna. Si tratta di un lugubre canto a due voci che si alternano in memoria di un fratellino morto. Le parole della bambina sono scritte usando il corsivo, quelle del fratello utilizzando un diverso carattere. Appena il canto di uno dei due si affievolisce, subito si dispiega quello dell’altro con eguale forza e determinazione. I loro occhi, occhi di bambini, vedono tutto e tutto raccontano. Ma se il fratello si sofferma sulla realtà di ciò che accade e racconta i fatti così come lui li vede, la sorellina è immersa nell’anima di tutte le cose e le mostra non come fossero fissati in una realtà lontana ma presenti e prossime pur nella loro impossibilità a concretizzarsi. Anche i titoli di ogni capitoletto svelano i due punti di vista: il fratello è annunciato da titoli brevi, concreti, spesso solo con i nomi delle città che attraversano, mentre i canti della sorellina sono introdotti da brevi monologhi di quattro o cinque righe in cui l’essenza del canto a seguire già si mostra liricamente.
Nella storia narrata da Michael Kimball c’è una vera e propria ostinazione ad essere famiglia. Questa deve essere tenuta insieme ad ogni costo, deve morire, nascere, morire di nuovo, ma rimanere sempre famiglia e se non è possibile lo farà il gioco, che diverrà macabro sogno e incubo a più voci.
La bimba ha una famiglia tutta sua: la famiglia delle bambole che contrariamente a quella reale sa bene come si vive: «La famiglia delle mie bambole gioca meglio alla famiglia della mia famiglia di persone vere» anche se è fatta di pezzettini di stoffa, spago e bottoni, tenuta su da bastoncini dei lecca-lecca.
Quando il fratellino più piccolo si ammala di febbre gialla, tutto si ammala anche la casa stessa, la camera, il letto è malato, le porte e le pareti, il contagio striscia e si compatta ovunque. Tutto è giallo perché il bimbo ha la febbre color del sole, ha la mortale febbre gialla; quel colore è così forte che s’insinua sotto la pelle e brucia tutto dentro nella sua culla. E la sorellina gli colora la pelle del colore della pelle con i suoi pastelli per cancellare quel giallo di morte. La bimba fa muovere le braccia e le gambe della famiglia-bambola, parla la lingua delle bambole muovendo le loro bocche e la sua. Mentre il fratellino morto non può più parlare, la lingua delle bambole «non va mai via».
E quando il piccolo chiuderà gli occhietti per sempre tutto intorno a lui morirà. La sua sepoltura è surreale e ricorda sequenze dei film di Luis Buñuel. Al termine della cerimonia i genitori tireranno su dalla fossa il fratellino con la sua piccola bara: «dovemmo andare noi a tirarlo fuori dalla terra e dal mondo della polvere con le nostre mani e le braccia e le schiene e le corde». Se dunque la morte ha contagiato la casa, la famiglia dovrà lasciare per sempre quel luogo e porterà con sé il bimbo morto. Lo metteranno in macchina nel portabagagli insieme a tutto ciò che riescono a portare via dalla casa. Quando verranno degli uomini per svuotare le stanze, togliere pavimenti, mattonelle, mobili, scatole, porteranno via anche le finestre e in questo modo porteranno via anche il loro modo di guardare fuori dalle finestre. Tale è la simbiosi con la casa che ogni cosa porta via con sé un pezzo di ogni singola persona, anche il modo in cui essa guarda fuori dalla finestra. Questa è la loro identificazione-simbiosi con ogni singola parte della casa e dei suoi oggetti: salda, tenace, coriacea.
Le cose soffrono dello stesso scompiglio degli uomini, gli stessi sentimenti, ora di paura e paralisi, ora di voglia di andare via da tutto. Sono le cose a guidare il mondo. Ad ogni tappa del viaggio qualcosa viene venduto per poter arrivare alla tappa successiva. Un tragitto di spoliazione. Valigie, cassette, scatole e sacchi venduti per lasciare Sunfield. Un lungo viaggio fatto di cose barattate per fuggire da un paese all’altro e arrivare senza più possedere nulla alla casa del “babbo vecchio”, a Gaylord dove saranno accolti nella loro nudità.
E prendono il mondo della strada, un cammino di morte. Ad ogni tappa si affianca una tappa dell’anima. Quando verranno venduti i vestitini del bimbo morto e la sua culla, i genitori sentono che con le sue cose hanno venduto anche lui. Se durante il viaggio la mamma sarà costretta a cedere anche le collane, gli anelli e «tutte le cose per farsi bella», sa bene che con esse darà via anche la sua bellezza e la sua immagine nello specchio. La scelta della famiglia è definitiva fino alla autodepredazione di sé stessi. «Abbiamo barattato la nostra vita con quella di altre persone». Un pellegrinaggio, una via crucis, in cui ogni sosta prevede una diversa spoliazione e abbandono di qualcosa, non più rinviabile. Un viaggio in cui regna una desolazione infinita, nei luoghi, nelle persone, nell’animo di ognuno e una profonda solitudine. Più oggetti vanno via e più la loro stessa esistenza se ne va, per frammenti, scaglie, schegge. Barattare una foto di famiglia equivale ad abbandonare tutte le persone che sono ritratte nell’immagine.
Ma allora che cosa è una famiglia per queste persone che viaggiano tutte insieme da vivi ma sono morti? Secondo il resoconto dei bambini, le persone vere sono quelle che fanno parte di una famiglia vera quella cioè in cui non ci sono morti. Da qui nasce l’esigenza della bambina di costruire una famiglia che sia vera, la sua, delle sue bambole dove non ci sono i morti.
Nonostante il lirismo e la bellezza del linguaggio della bambina il libro non riesce ad uscire da una costrizione linguistica soffocante. Non c’è un respiro di lieve raccontare; tutto in quella famiglia uncina e tiene stretti al senso di perdita. Lo stile di Michael Kimball così allucinato, stridente, ossessivo, racconta il viaggio in un aldilà che forse è ancora nel mondo e si pone come porta di dolore tra i due mondi. Il fratellino morto nella piccola bara nel portabagagli accompagna l’intero viaggio e se lui è morto anche loro sono morti e questo diventa quasi una nenia dell’orrore; ogni tanto durante la notte si chiamano per svegliarsi tra di loro e constatare se sono ancora vivi. Ma, da vivi, sono assediati dal senso di colpa per essere ancora nel mondo: «Quello che ha ucciso il mio fratellino è che nella culla non erano più rimasti anni di bambino. E nemmeno a mia madre erano rimasti in braccio altri anni di bambino. Li avevamo consumati tutti io e mia sorella».
E allora meglio giocare al gioco del fratellino. Il macabro gioco del cadaverino tirato fuori dalla piccola bara: gli piegano gambe e braccia per metterlo seduto «e farlo diventare una persona vera», gli aprono la bocca con un coltellino per farlo sorridere, con gli attrezzi presi nel portabagagli cercano di farlo stare dritto, ma il corpicino non ce la fa «la pelle gli andava larga come i vestiti», solo i capelli e le unghie erano cresciuti. Giocano e giocano col piccolo, lo nutrono, gli danno da bere «così lui poteva diventare una piccola persona vera e poi uno come noi e poi diventare grande insieme a noi». Ma verrà il giorno in cui il fratellino dovrà affrontare il fuoco per diventare polvere trasparente fino a che non si potrà più distinguere la forma di un bambino e andrà a dimorare in un vasetto trasparente.
Il bisogno di vita spinge i genitori ad avere un altro bimbo, ma anche questo morirà durante il viaggio. Eppure il desiderio di un approdo non lontano li guida. Ma quando tutta la famiglia arriverà alla nuova casa a due piani del “babbo vecchio” le cose andranno diversamente da come fratello e sorella avevano creduto. Nuove perdite e dolori li aspettano ma qualcosa accadrà e non ci si potrà più fermare…
Patrizia Parnisari
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Michael Kimball
E allora siamo andati via
Collana Fabula
Traduzione di Paolo Dilonardo
Adelphi Milano 2001
Brossura fascicoli cuciti
140 x 209 x 12 mm
134 pp
245 gr
14,00 €
ISBN 9788845916383