RECENSIONE: Mircea Cărtărescu “Melancolia”
È trascorso così poco tempo da quando la mamma è uscita di casa, ma per il bambino è già abbandono. E se non tornasse più? Se da quella porta la mamma non facesse più capolino e il rumore della chiave diventasse soltanto un ricordo? Quanto tempo è passato? Il bimbo si aggira per la casa vuota e scopre un mondo diverso, il mondo della solitudine e del dolore. Ora è solo e forse lo sarà per sempre. Di stanza in stanza, di cosa in cosa, di finestra in finestra, egli passa «impietrito nel suo enigma». Da quando la mamma è uscita si sono più volte avvicendate le stagioni: la sua solitudine sarebbe durata all’infinito, sempre uguale, sempre diversa. Fuori si scorgono le cime dei pioppi e un’enorme costruzione di mattoni. Chissà quante altre cose si nascondo laggiù. Perché allora non uscire? È forse prigioniero? Ormai non piange più, non si dispera. È passato troppo tempo dall’abbandono. La melancolia lo ha rapito. Muto e solo sosta davanti alla porta dove ormai si è accumulata troppa terra, tumulo verticale, e nessuno potrà più fare ritorno. La mamma forse si è semplicemente dimenticata di tornare, pensa il bambino. Il tempo si è dilatato in modo tale che ogni concezione di presente o passato non c’è più, anche il futuro si è dissolto. La melancolia ha creato un tempo mostruoso, un tempo parallelo nel quale il bambino ha vissuto giorni, mesi e anni di crudele mestizia. Ma ecco che la porta si apre. La mamma è lì con le borse della spesa. E il bimbo piange, ride, singhiozza e abbraccia forte la mamma e non sa più cosa sia il tempo. Ma tutti quegli anni, quelle lacrime, quella solitudine?
Un racconto inquietante, I ponti, che fa parte di un trittico insieme a Le volpi e Le pelli tutti incentrati sul tema della solitudine e del distacco, dell’abbandono. Nella storia di Le volpi la solitudine viene resa attraverso il rapporto brutalmente interrotto tra bimbo e la sorellina più piccola con cui vive in perfetta e inscindibile simbiosi. Il distacco a causa di una grave malattia porta inevitabilmente alla tragedia. Le pelli il più lungo e sicuramente più complesso e allucinato dei racconti è singolare e inquietante. Il ragazzino protagonista appartiene ad una razza che cambia pelle quando questa diventa vecchia e usurata. Le pelli vengono appese in un armadio e poi custodite in valigia.
Il libro di Mircea Cărtărescu, Melancolia è, come tutte le sue opere, posseduto dalla grazia di un linguaggio singolare che sa snodarsi continuamente tra il piano della realtà e quello dell’onirismo. Una prosa unica e ricchissima che lo accomuna ai grandi maestri del Novecento. Lo scrittore rumeno sa fare del mistero e dell’inquietudine le assi portanti di molti dei suoi libri senza mai cedere al prevedibile e all’ordinario. Le sue storie procedono parallele alla matematica, alla scienza, alla fisica, al sogno, ai simboli, come parallele procedono nella vita di ognuno consapevolmente o meno.
Nella raccolta Melancolia oltre ai tre racconti lunghi centrali, Cărtărescu impreziosisce il volume con il Prologo, dal titolo La danza e con l’Epilogo che prende il nome di Prigione; due brevi capolavori di pagine dense che vibrano e oscillano tra Borges e Kafka. Nel Prologo un uomo approda con una scialuppa su un’isola in cerca di un misterioso e meraviglioso palazzo «non eretto da mano umana». L’edificio, ormai deserto, nasconde infinite stanze. In ognuna si mostra una diversa stranezza: una locusta grande come un cane, un cubo di pietra su cui rumoreggia un macchinario sconosciuto, un pesce dorato o una sfera levitante. E al centro di questo inquietante labirinto, nel perfetto centro del palazzo c’è l'”Uscita”. Un’uscita che tale non è, dato che è presidiata da un feroce guardiano che non permette a nessuno di passare da lì. Ora sono l’uno di fronte all’altro e si fissano negli occhi con ferocia. Il guardiano sembra avere proprio la stessa età dell’uomo, ha una cicatrice sulla tempia e anche gli stessi abiti, e gli stivali, tutto è uguale ma tutto si mostra al rovescio. Se l’uno porta la spada nel fodero sinistro, l’altro lo avrà nel destro. Se uno avanza di un passo anche l’altro lo farà in perfetta sincronia. E quando l’uomo sfodera il pugnale le armi si incrociano punta contro punta. «Chi potrà mai credermi? Chi può credere a una magia o a un esorcismo?», si domanda l’uomo sentendosi sempre più inquieto. Per giorni cerca strategie per combattere e uccidere il guardiano mentre angeli vanno e vengono «più noiosi delle zanzare». L’Arcipelago ne è infestato. «Mi venivano attorno, mi davano consigli balordi, mi parlavano di dogmi e sacramenti, m’infastidivano con le loro facce pallide, che non sapevano né ridere né piangere». Altri messaggeri alati se ne stanno seduti come gabbiani sui davanzali con le gambe ciondoloni scommettendo su chi avrebbe vinto davanti alla porta dell’Uscita. Ma un antico ricordo gli viene in soccorso e l’uomo capisce che solo la danza potrà salvarlo. Danza con otto braccia, con migliaia di gambe, con le viscere, con le vene, con i denti e con le orecchie. Danza ogni cosa per battere il sosia-guardiano: danza la danza sacra dei quaternioni e degli ottetti, la spirale di Archimede, il numero aureo, la sequenza di Fibonacci, le galassie, danza il fuoco eterno, gli angeli, la reggia e il mare. Ma quando questa danza cessa, davanti a lui sulla soglia non c’è più nessuno. Il guardiano è scomparso. L'”Uscita” è incustodita e adesso può passare per vedere cosa c’è dall’altra parte. Ma l’uomo ormai capisce che non c’è più alcun motivo per varcare quella soglia e abbandona il palazzo con tutte le sue meraviglie e i suoi misteri.
Tutta la struttura del libro è complessa e molto articolata. Nell’Epilogo troviamo di nuovo temi borghesiani e kafkiani. Un uomo imprigionato in un terribile carcere di sicurezza non conosce la ragione di questo suo destino. Non sa se abbia mai avuto un processo né quale sia l’accusa. Murato vivo da molto tempo sopravvive fra atroci sofferenze in una cella che lo schiaccia da ogni lato, come fosse stato inoculato fin dentro quel buco. O forse, si domanda, la prigione è stata costruita attorno a lui. Il prigioniero grida ferocemente senza emettere alcun suono. Potente e terrificante afasia.
Sono tre i muri che lo avvolgono: il primo è il claustrum, le prime pareti della cella o del cervello; il secondo muro è dato dal cervello stesso, il palazzo cerebrale circondato da mura non per difendersi «ma per non tracimare all’esterno». Il corpo è il terzo muro, il più potente, il più brutale custode della sua eterna prigionia: «carne rossa compressa dalla pelle… un pantano di organi avviluppati da membrane sierose quasi fossero tele di ragno». Il prigioniero riflette e si contorce su cosa siano dunque tutti quelle molecole, quei tessuti, quei bosoni, quei fermioni. Un corpo a corpo con il proprio corpo per cercare di riconoscerlo: quel cuore, quel fegato, quelle unghie sono davvero sé stesso? O sono altro da sé?
Il detenuto lotta per continuare il suo esercizio interiore e non impazzire e così prende a contare; chiama in aiuto i numeri perché, spiega a sé stesso, anche i numeri sono soli. Sprofonda nell’abisso tra zero e uno, conta i primi eoni e poi il primo infinito, e una sequenza infinita di infiniti elevati all’infinito. Ma non basta. E allora inventa il linguaggio, suoni e parole ma, ammette, non saprà mai cosa sia davvero il linguaggio, «come si presentano le parole quando sono piene, compatte», quando possiedono l’elasticità delle anguille o dei lombrichi o le squame sull’ala della parola libellula.
«Contando sono arrivato alla fine dei numeri. Parlando, sono arrivato alla fine delle parole. Non ho più nulla da dire ora a me stesso. Simile ai dannati eterni dell’inferno, sono diventato tutt’uno con il mio grido».
Patrizia Parnisari
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Mircea Cărtărescu
Melancolia
Collana Oceani
Traduzione di Bruno Mazzoni
La nave di Teseo 2022
Brossura fresata
150 x 213 x 25 mm
380 gr
262 pp
20€
ISBN 9788834607084a