RECENSIONE: Osip Mandel’štam “Viaggio in Armenia”

RECENSIONE: Osip Mandel’štam “Viaggio in Armenia”

«Non è nato per costruire chi nel rumore dello scalpello che frange la pietra non ode una dimostrazione metafisica». Quando nel 1913, Osip Mandel’štam scriveva queste parole nel saggio Il mattino dell’acmeismo, la gestazione di Viaggio in Armenia era ancora lontana, ma l’architettura verbale del poeta era già tracciata ed egli avvertiva che costruire significa ipotizzare lo spazio, cogliere la dimostrazione metafisica e far sì che anche la pietra possa, in se stessa, discernere la «capacità dinamica» che potenzialmente possiede. Poiché anche la pietra sogna ed è presaga di una diversa esistenza, Mandel’štam tenacemente deliberò di esercitare su tutta la natura l’arte suadente della maieutica: ogni elemento naturale acconsentì a lasciar defluire ogni possibile vibrazione di colore e suono, affinché il poeta potesse immergersi nella austera lettura del «libro delle sonore argille, la libresca terra, / il libro putrefatto… / che ci tormenta come musica e parola».

Il viaggio in terra armena fu per Mandel’štam una sorta di premonizione dell’esilio e della sua misteriosa sparizione nel gulag staliniano. Intrapreso con l’aiuto di Nikolaj Bucharin, dopo che era stata scatenata una campagna denigratoria nei confronti del poeta, questo viaggio ha la triste e malata esultanza degli attimi che precedono la fine, quasi una canzone abchesa di «melodie sfrontate». Frutto di questo vagare è una silloge di scritti che tenta di dare unità e compattezza ad uno stile che, al contrario, procede per frammenti e libere particelle. Il segmento si muove, circola libero, la natura predispone ad un pensare per schegge, per punte aguzze. Si avverte una lamina narrativa, un dimagrare del linguaggio, che imita la fermezza della pietra, il suo tagliente silenzio che spunta le parole. La terra armena di Mandel’štam si dimena tra «pietre urlanti e sonore in cui si attardano lente agonie, rauche montagne e nuvole che celebrano «sacre funzioni al dio Ararat». Qui gli uomini parlano una lingua dura, vigorosa e salda, che prorompe da «una laringe villosa»; una lingua di sinistri presagi, «tenaglia e uncino». La dimensione armena diviene fecondo incontro di miscele contrapposte: tutto si metamorfizza e la natura è un unico regno, vegetale, umano, animale e minerale.

Mandel’štam penetra il labirinto; sull’isola Sevan si aprono «capanne sotterranee invase da ortiche e lappole». Nella palude incerta della desolazione appaiono prodigi di costruzioni fantastiche: prende corpo la dimensione onirica dell’esistenza, in cui le bisce hanno «cesellate testine femminili», i rospi sono borghesi, una nube di moscerini altro non è se un velo di mussola ed il frutteto una scuola di ballo per alberi, in cui il timido melo ed il ciliegio istruito si esibiscono in ritornelli e rondò. Per il poeta l’inconoscibile poetico si fonde con l’evidenza scientifica. Nell’articolo Intorno ai naturalisti, Mandel’štam si schiera a favore della prosa scientifica di Darwin, paragonando Sull’origine della specie ad un’opera musicale, ad una suite e sarà dunque lo stesso andamento di suite ch’egli vorrà applicare a Viaggio in Armenia, vivificando l’opera con una sorta di scienza inquieta. La rigorosa scienza viene distillata dalla poetica acmeista ed il poeta osserva il risultato dei suoi esperimenti nel tentativo di cogliere il momento in cui la materia si fa spirito e la pietra svela la metafisica.

Un continuum fisiologico attraversa, così, questo viaggio in cui un giorno può avere «cinque teste» e dove la pietra può farsi merletto o ragnatela, come già nella prima raccolta di poesie Pietre. In una dedica ad Anna Achmatova egli definì quei versi «scoppi di coscienza nell’incoscienza dei giorni». L’esilio in Armenia fu l’ultimo esilio dell’anima desiderosa ormai soltanto di farsi pietra. Mandel’štam scrisse che il suo viaggio non sarebbe parso inutile se questo gli avesse permesso di accettare la «pietrosità del sangue» addentrandosi nella fermezza che acconsente di accogliere stoicamente l’ombra della quercia e quella della tomba. Capì che quando ormai la sua voce era stata soffocata, soltanto la terra risuonava «come ultima arma» e null’altro rimaneva che rifiutare «la luminosa assurdità della volontà e della ragione».

Anche se, come scrisse il poeta, le dita del potere sono dure, «grosse come vermi» e le parole della tirannide «esatte come fili a piombo», egli accetta di misurarsi con l’ultimo incontro: il terribile convito finale con la Storia. Si appoggiò con «tutte le fibre dell’essere all’impossibilità di scelta, all’assenza di qualunque libertà» ed il suo canto fu imprigionato per sempre tra le pareti del sonno della ragione e della morte.

«…Moriremo come fantaccini ma non celebreremo… la menzogna»

Patrizia Parnisari

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Osip Mandel’štam

Viaggio in Armenia

Collana Piccola Biblioteca

Curatela Serena Vitale

Adelphi Milano 1988

Brossura fascicoli cuciti

192 pp

15,00 €

ISBN 9788845902918