RECENSIONE: Predrag Matvejević “Venezia minima”

RECENSIONE: Predrag Matvejević “Venezia minima”

Piro-piro, tarabuso, foffano e tuffetto… Non sono personaggi di cartoni animati, né si tratta di un allegro scioglilingua ma sono buffi nomi di uccelli che si librano nei cieli e vanno a morire tra gli isolotti della laguna veneziana. Uno dei tanti luoghi nascosti o poco conosciuti che Venezia ancora protegge dalla barbarie, da quel grande insidioso male, il turismo senza freni e onnivoro, dalla quale è afflitta e che lentamente, e senza più ritorno, la corrode. Forse anche per questo che l’unità di misura di Predrag Matvejević, nel suo viaggio Venezia minima, diventa il particolare o la sfumatura, unica estensione possibile per attuare lo scarto di una diversa prospettiva. Scrittore europeo e mediterraneo, profondo umanista, Predrag Matvejević (1932-2017) non poteva non misurarsi con Venezia. Chiunque si sia avvicinato a questa città ha temuto la banalità del dirla. Del resto l’autore non è nuovo ad una duplice visione delle cose: nei suoi scritti troviamo le narrazioni della grande storia, degli morti e degli orrori dei totalitarismi, il dolore della dissidenza e della perdita, ma ci sono anche quelle della piccola, piccolissima, storia di persone e cose che una storia, anche se minima, non l’hanno mai avuta, poiché vivono soltanto il destino della dimenticanza e dell’esilio. Per loro c’è la parola di Matvejević che nulla avrebbe voluto consegnare all’oblio. Ricorda Claudio Magris che nei libri dello scrittore jugoslavo «cultura e storia vengono calate direttamente nelle cose, nelle pietre, nelle rughe del volto degli uomini». Matvejević allora rimuove l’automatismo della percezione ordinaria, costringendo ad una più profonda consapevolezza delle cose.

E poi c’è la Venezia in cui «anche la ruggine è sfarzosa; la patina somiglia a una doratura», scrive Matvejević, la stessa ruggine fulva di Tintoretto e dell’ultimo Tiziano, sfumature brune, rosse e dorate. Splendori e disfacimenti. E poi quella piccola e più nascosta, forse anche a se stessa, quella delle piantine abbandonate, dei cocci, dei venti tra le calli, dei suoni e della musica dei ponti. «Ho imparato ad ascoltare i suoni , i rumori, tutto quello che si ode nella città e nella laguna nelle diverse parti del giorno e della notte: passi, remi, barche, sciabordii, sciacquii, uccelli».

Luoghi nascosti, minimi, che quasi nessuno sa e che vengono raccontati in virtù di «quell’epica della descrizione meticolosa» cui Raffaele La Capria fa riferimento nella prefazione al libro; «egli scava e scopre frammenti e reperti pulendo delicatamente con un pennello la realtà sepolta sotto la polvere delle rappresentazioni». Mondo lillipuziano e modesto, fatto di cose rincantucciate, che sanno tacere, che non urlano la propria bellezza.

Nei giardini veneziani piante comuni e rare crescono in un bizzarro accostamento: dal cedro del Libano al gelsomino, poi tamerici, limoni, rododendri, la rosa greca e gli arbusti nani della Corea, e anche erbe medicinali ai piedi dei muri, l’erba mora e il critmo, e anche le stesse modeste piantine senza nome che si trovano dipinte nelle grandi opere di Tiziano e Tiepolo.

Matvejević amava narrare, e non solo in questo libro, la saggezza schiva dei miracoli più nascosti, quelli che prolificano nell’esilio (che lo scrittore a lungo sperimentò nella propria esistenza) e nella mitezza della vita. E in questo c’è una ragione grande e profonda che è quella della poesia, della curiosità amorevole che soccorre le cose più piccole; un approccio mansueto, quasi pudore che tiene lontano ciò che è fastoso, ridondante, barocco. Una pietas profonda per l’umanità. Al di fuori di questo sguardo lo stupore non sarebbe più possibile. Ci sono cose, infatti, che proprio a causa della loro grandezza sono impossibili a dirsi. É il caso di Venezia. Matvejević ne era consapevole; ecco perché non dice ciò che è eterno ma ciò che è effimero, non ciò che vive ma ciò che muore. É il luogo degli omissis. Venezia non è città spigolosa e dura, pur nella pietra è addolcita e smussata da nebbie, brume, luci fioche che la rendono morbida e duttile. Duttilità e flessibilità che ne hanno fatto una delle città più cosmopolite e aperte. Venezia non ha permesso sul proprio territorio lo scontro tra bizantinità e romanità che ha afflitto e in parte distrutto alcune regioni balcaniche. Questa “immunità” l’ha resa grande e l’ha salvata, ponendola su un confine che la rende Oriente, Occidente, Europa. Scrive Matvejević: «quelli che arrivano a Venezia dai vari centri dell’Europa vi incontrano l’Oriente. Per le popolazioni dei Balcani e del vicino Oriente, invece, Venezia è al tempo stesso Europa e Occidente!». Forse per questo, suggerisce, Venezia incarna quel «divano orientale-occidentale» goethiano che in nessun altro luogo è tanto ampio e soffice. Adagiarsi su questo lussuoso divano è immenso privilegio.

Patrizia Parnisari

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Predrag Matvejević

Venezia minima

Collana Elefanti bestseller

Traduzione Giacomo Scotti

Garzanti Milano 2020

Brossura

160 pp

ISBN 9788811812678