RECENSIONE: Vladimir Nabokov “La difesa di Lužin”
Strano gioco davvero gli scacchi se persino la Morte, che non si concede trastulli, accetta di posare per un poco la falce, pur di giocare ancora una partita. Dimentica e assorta, lascia che la sua messe s’allontani indisturbata, stregata anch’essa da quell’arte misteriosa e perfetta. Accadeva ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Ma quante altre volte la morte, in compagnia della follia, si è avventurata in estenuanti e arguti tornei di scacchi sempre fatali per l’avversario. Corpose schiere di audaci e destri giocatori sono state decimate dalla pazzia, almeno nella finzione letteraria e cinematografica. Si sono cimentati, tra gli altri, Samuel Beckett e William Faulkner, Massimo Bontempelli ed Elias Canetti, Gabriel Garcia Marquez, François Rabelais e Stefan Zweig. A questo filone appartiene, a buon diritto, anche il romanzo di Vladimir Nabokov, La difesa di Lužin, anche se non può essere annoverato tra i migliori di questo genere.
Scritto originariamente in russo venne pubblicato a puntate sulla rivista trimestrale dell’emigrazione russa, il Sovremennye Zapiski, a Parigi sotto lo pseudonimo di Sirin, e poi in volume nel 1930 a Berlino. La vita della povera creatura di Nabokov è sin dai primi anni rovinosamente votata al gioco degli scacchi. Lužin, infatti, ancora ragazzo, fragile, insicuro, caparbio e solitario, vede piombare su di sé il giorno fatale in cui il mondo si oscura totalmente, in cui tutto scompare. «In quelle tenebre restò vividamente illuminata una cosa sola, un’isoletta splendente sulla quale era destinata a concentrarsi tutta la sua vita»: una scacchiera. E così, Lužin, il più insondabile degli uomini, decide di consacrare la propria esistenza a quell’arte spettrale, facendone una professione futile, assurda e per lui letale. Dall’angustia dei bianchi e dei neri, trasformatasi in un incubo a 64 caselle, uscirà soltanto, almeno in apparenza, con il suicidio. Il romanzo costruito intorno a questa ossessione è, in realtà, formato da due parti ben distinte: il prima e il dopo d’un torneo decisivo tra Lužin e Salvatore Turati, campione italiano di scacchi. Ma se fino a quell’incontro Nabokov riesce a costruire una narrazione serrata ed incalzante, il forzato abbandono del gioco da parte del protagonista, ormai ridotto alla follia, sembra togliere al suo stesso creatore ogni forza stilistica. Il libro si fa caotico, a tratti scolorito e confuso; inciampa nei luoghi comuni delle patologie e degli incubi scacchistici, si trascina fino al suicidio non soltanto del protagonista ma anche a quello della narrazione stessa. Quando il protagonista perde definitivamente il controllo della propria mente, i nervi stessi di Nabokov sembrano non reggere alla fatica creativa e l’autore lo segue appiattendosi con lui in un dormiveglia ovattato e noioso. Così il piccolo Lužin si trasforma lentamente da Wunderkind del gioco, a martire grottesco, pedina inconsapevole e tramortita. Fra tutti coloro che ruotano attorno alla sua vita, nessuno riesce a comprendere il dolore straniante di cui egli è vittima, nessuno condivide con lui il sacrificio d’ogni altra forma di vita se non quella legata alla magnetica superficie dei piccoli quadri. La dedizione febbrile agli scacchi risulta incomprensibile nell’ambiente frequentato da Lužin fatto di ricchi emigranti russi, insediatisi a Berlino negli anni Trenta. Anche la sua fidanzata, che sembrerebbe difenderlo e amarlo sinceramente, risulta essere inevitabilmente parte di quell’ambiente incarnando, suo malgrado, intelligencija e decadentismo. Ella vive in una casa che si sforza di assomigliare ad una Russia in miniatura, ma che assurge a mondo grottesco, quasi bozzetto: una Russia artificiale e pasticciata, fatta di samovar, icone, riproduzione di fanciulle boiare, di uccelli di fuoco e trojke, insomma d’ogni “autentico comfort russo”. Lužin non trova terreno fertile alla condivisione della sua professione. Intorno a lui questa passione può essere giustificata soltanto alla «luce dei maledetti tempi moderni, della mania di demenziali primati, aeroplani che vogliono arrivare al sole, maratone, olimpiadi..», un primato tra tanti, dunque, degno soltanto di mode passeggere e inconsistenti. Ma il fatto è che il povero Lužin ci perde la ragione e la vita.
Sarà forse perché, come ci ricorda Paolo Maurensig ne La variante di Lüneburg, l’invenzione degli scacchi sarebbe legata ad un fatto di sangue? E’ forse a causa di questo cruento incipit che il gioco conduce i suoi adepti alla follia? Dal Fischerle di Elias Canetti all’Anderssen di Arrigo Boito, in troppi hanno chinato la testa, perdendola, sotto il giogo di quella logica tagliente, perfetta e micidiale. Anche Lužin padre ama gli scacchi e ama ribadire che per vincere bisogna essere dotati d’un gran talento matematico. Ma non è certo questo a far difetto al figlio. Egli adora il capriccioso comportamento dei numeri e le «arbitrarie mattane delle linee geometriche», l’illusorio conforto dei puzzles che soltanto all’ultimo momento, quasi in un colpo di scena, si combinano perfettamente in un quadro intelligibile. Se ha tra le mani una rivista, il piccolo Lužin non si sofferma certo su illustrazioni o disegni, ma si affanna a ricercare problemi, aperture, partite. Ed è lì tra quei minuscoli quadrati ora bianchi ora neri, che il male prende a farsi strada, serpeggiando in modo infido fra torri, cavalli e re. Fattosi adulto, il corpo goffo, l’aria tetra, l’aspetto trasandato, la sua mente si appressa lentamente alla follia. Gioca in maniera dissennata, senza risparmiarsi, esibendosi in partite alla cieca, in cui il gioco depurato da fastidiose figure di scacchi tangibili e visibili, gli restituisce la purezza originaria delle mosse. Non più criniere, merlature di torri, abiti da regine, ma soltanto scosse, fulmini, scariche, purezza di energie, logica allo stato puro. Ed egli, come già nell’infanzia, si sgancia definitivamente dalla realtà confondendone i piani: «La vita vera, la vita degli scacchi, era ordinata, nitida, ricca d’avventura e Lužin rivelava con orgoglio quanto fosse agevole dominarla, e come tutto in essa fosse pronto a obbedire al suo volere e a inchinarsi ai suoi progetti». Intorno la vita è illusoria, unica certezza e concretezza quei piccoli pezzi da gioco che si fanno presenze fisiche. E qui si affaccia alla mente l’assurda partita giocata in Murphy di Samuel Beckett (lo scrittore giocò a scacchi anche con Duchamps), in cui i neri e i bianchi arrivano a provare dei sentimenti: «La parola scritta non può esprimere l’angoscia d’animo che ispirò ai Bianchi l’abbietta offensiva». Ne L’alfier nero, di Arrigo Boito, i neri sono sgomenti davanti ad uno spaventoso attacco dei bianchi. Il povero re, in arrocco, piange nel suo cantuccio per il disonore della fuga mentre un nero alfiere, ferito, perde vero sangue. Anche per Lužin quello della scacchiera è un universo in carne ed ossa. Egli altro non percepisce se non quadrati e tasselli ovunque. Persino la sofferenza si deforma in neri quadratini di dolore; anche la lieve felicità provata di tanto in tanto è una gioia a macchie. Ogni nuova partita racchiude un nuovo tormento fino a che persino il sonno non riesce più a farsi strada nei suoi pensieri e trova nell’esausto cervello «pezzi di scacchi a sentinella». La sua ragione è affollata, devastata da immagini di strategie, difese, attacchi, perché ogni minuto disabitato diverrebbe ‘falla per fantasmi’.
E allora, dopo l’ennesimo incubo notturno (si sogna nudo e tremante al centro di un’enorme scacchiera circondato da mastodontiche regine, giganteschi cavalli e re macrocefali), decide di uscire dal gioco. Si getterà da una finestra. Un’ultima visione prima di lanciarsi nel vuoto: ad attenderlo, giù in fondo, inutile dirlo, un abisso a scacchi, un’eternità di quadrati bianchi e neri.
Patrizia Parnisari
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Vladimir Nabokov
La difesa di Lužin
traduzione di Gianroberto Scarcia e Ugo Tessitore
collana Biblioteca Adelphi
Adelphi Edizioni
Milano 2001
brossura
ISBN 9788845916021
140 x 220 x 17 mm
233 pp
330 gr
€ 19,00