RECENSIONE: Stefan Zweig “Mendel dei libri”

RECENSIONE: Stefan Zweig “Mendel dei libri”

Vienna. Avvenente città che seduce da sempre gli scrittori offrendo loro un sicuro rifugio dalla vita ordinaria tra divani e tavolini dei suoi molti Café. Il tempo del Café viennese è diverso da quello distratto e fugace oltre le vetrine; i pensieri vengono custoditi. Lo sapeva Thomas Bernhard che scrisse molte delle sue pagine nell’Antico Café Bräunerhof o Arthur Schnitzler e Stefan Zweig che scrivevano al Café Central. E poi la Seccessione viennese che nel 1897 nacque al Café Sperl o il Café Museum che accoglieva Klimt, Schiele, Kokoschka. Quei tavoli hanno visto talenti e uomini molto speciali.

Ma c’è una storia dolorosa e struggente, che tutti ormai hanno dimenticato, nata proprio ad uno di quei tavoli al Café Gluck, la storia che Stefan Zweig ha raccontato in Mendel dei libri. Una testimonianza di cosa siano la memoria e il ricordo, un libro sui libri che secondo Zweig vengono scritti «per legarsi agli uomini, al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio». Ecco perché perdere la memoria equivale a perdere la vita. L’uomo del racconto farà subito esperienza del ricordo e della sua difficoltà a raggiungerlo se esso non si palesa spontaneamente. In cerca di un riparo ad un forte temporale, quest’uomo entra in un Café a caso. Ma nel tranquillo torpore di quel luogo ovattato qualcosa d’un tratto lo turba. Non sa cosa sia né perché ma è preda di un sentimento che non dà pace. Poi capisce; lui, in quel luogo ci è già stato. Ma quando, perché? Sarà soltanto un’impressione? L’uomo cerca cerca nella mente, si sforza, si accanisce, cerca indizi ovunque.

Per diverse pagine Zweig ci racconta come la memoria si muova nel nostro cervello, nella nostra psiche in cerca di madeleine cui attingere per far risalire il ricordo. Ed ecco che l’uomo del Café trova la sua madeleine: un tavolino, un piccolo tavolo quadrato. Ora il ricordo si palesa come una visione. Lì seduto a quel tavolino trascorreva le giornate Jakob Mendel. Come aveva potuto dimenticare quell’uomo! Lui, Mendel “mago e sensale dei libri”, “emblema del sapere”. Creatura prodigiosa e rara seduto dinanzi ai suoi libri e le sue carte, dondolava il corpo avanti e indietro come gli avevano insegnato alla scuola talmudica, salmodiando. Tutto ciò che gli era attorno non esisteva; gli avventori, i camerieri, coloro che bevevano o giocavano, nulla poteva distoglierlo dalla lettura. Leggeva come altri pregano. Arrivava al mattino e restava nella stanza fino a sera sempre seduto, vestito di nero con abiti poveri e sdrusciti, la barba incolta e i suoi inseparabili occhiali dalle spesse lenti e la montatura pesante mentre si dondolava come un cespuglio scuro al vento. L’omino conosceva titolo, autore, edizione, copertina, numero di pagine, tutto di ogni libro anche le riproduzioni, la bibliografia, le note o il tipo di carta. Chiunque avesse avuto bisogno di un libro e di informazioni su di esso sapeva che Jakob avrebbe soddisfatto ogni richiesta in un istante. Era come se il libro lo vedesse nella mente, lo toccasse. Era lì, dentro di sé. Una quantità enorme di libri era nella sua testa, una biblioteca astratta per chiunque gli fosse davanti, ma concreta e tangibile per Mendel. Era considerato un originale, «un preistorico biblio-sauro», il rappresentante di una razza in via d’estinzione. Delle biblioteche sapeva tutto, il buon Mendel, quanti e quali libri custodiva, quali fossero a disposizione e quali in giacenza, dove gli schedari o i registri. Una memoria, quella dell’ebreo Jakob, senza pari nel mondo, quel mondo ch’egli non conosceva affatto nella realtà ma soltanto dopo che le cose e i fatti del mondo venivano raccolti e stampati in un libro. Da quel momento vivevano, dopo la loro «fusione in caratteri di stampa». Mendel è attirato più dal tipo di carta, dai caratteri del libro, dal titolo o dal frontespizio che dalla storia, dal contenuto, dal senso o dall’argomento. In realtà, egli è più un formidabile collezionista che un erudito. Ogni domenica l’omino mette un annuncio in cerca di libri vecchi, non importa quali, purché sia carta, egli è onnivoro.

In questo simile ad un altro grande personaggio di Bohumil Hrabal il protagonista di Una solitudine troppo rumorosa. Hanta è un uomo che lavora ad una pressa meccanica e con questa torchia e comprime la carta. Sotto le sue mani passano migliaia di libri e Hanta legge Goethe, Nietzsche, Kant, il Talmud, Erasmo, tutto legge ogni cosa sia stata mai scritta. Da quella pressa lui distilla la cultura universale. È ossessionato da quei libri, da quella carta senza la quale non potrebbe vivere; dorme addirittura sotto la pressa su un letto di libri, soffitto di libri, pareti di libri. Vorace, onnivoro come Mendel, hanno entrambi trascorso una trentina di anni con le carte vecchie, entrambi si sono ingobbiti, entrambi conoscono solo quel mondo fuori dal quale non esiste nulla. Se Hanta si definisce un dotto della non conoscenza, Jakob si ritiene saggio contro la sua volontà. Il primo conosce tutto ciò che c’è all’interno dei libri, l’altro tutto ciò che ruota attorno ad essi. Due personaggi straordinari che permettono soltanto alla carta di esser loro accanto. Tutto il resto non conta. Per questo il povero Mendel non si accorgerà nemmeno dello scoppio della guerra. Del resto non leggeva giornali e non parlava con nessuno. Al suo tavolino leggeva, studiava, pregava e la sua estrema concentrazione gli impediva di catturare le parole intorno e questo decreterà la sua fine. Quando infatti verrà catturato e trasferito in un campo d’internamento il povero ebreo non capirà cosa stia succedendo perché nel mondo dei suoi libri «non c’era guerra, non c’erano malintesi: c’era solo l’eterno sapere e voler sempre più sapere in fatto di numeri e parole, di titoli e nomi».

Dopo due anni di confino Jakob torna al Caffè Gluck ma non è più lo stesso, si trascina, ha lo sguardo spento e fisso, la sua prodigiosa memoria è sparita. «Mendel non era più Mendel, come il mondo non era più il mondo», la guerra aveva bruciato e devastato anche la memoria. Ma non la prevaricazione e l’egoismo dei singoli. Il nuovo padrone del Caffè Gluck assecondando la barbarie del presente, dimentica il prossimo e sé stesso, la propria umanità, sacrificandoli al denaro. Troverà un pretesto ignobile per cacciare quell’omino dal suo locale; ora quel posto è un Cafè chic e quello sporco, folle ometto deve sparire. Lo inchioderanno mentre ruba, per fame, due panini. «Mendel non era più un prodigio del mondo, non più la gloria del Caffè Gluck, ma la sua vergogna, una macchia di unto, maleodorante, disgustosa alla vista, un parassita increscioso e inutile». Su Jakob Mendel cala l’oblio. Nessuno sa più che lì una volta un uomo straordinario leggeva e pregava, nessuno tranne l’umile e silenziosa signora della pulizie, una donna ormai vecchia e stanca che lavora ancora al Cafè e pulisce i bagni. Una donna ignorante e analfabeta che non ha mai letto un libro in vita sua ma che custodisce ancora il libro abbandonato da Jakob quando era stato costretto a fuggire nella vergogna.

Personaggio umile ed emarginato, questa donna appartiene alla schiera degli ultimi. Sarà solo lei a ricordare perché sono gli ultimi a sapere; gli ultimi hanno memoria e bontà del ricordo.

Patrizia Parnisari

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Stefan Zweig

Mendel dei libri

Collana Biblioteca minima

Traduzione di Ada Vigliani

Adelphi Milano 2008

Brossura fascicoli cuciti

100 x 165 x 5 mm

53 pp

60 gr

7,00 €

ISBN 9788845922749