Saggio: Meditazione sull’Ex-libris

Saggio: Meditazione sull’Ex-libris

Riflettere sugli Ex-libris risulta improbabile, se non impossibile, se si prescinde dall’esistenza dell’oggetto “libro”. E se non si tengono presenti cause e conseguenze che questa nobile presenza ha generato, procedendo dinamicamente tra poli edificanti e/o più o meno maniacali, nel senso “patologico” della questione.

A seconda del tipo di rapporto instaurato con il libro, potremo dunque parlare di ‘bibliofilia’, che indica fin dall’etimologia del termine l’amore per i libri, al quale consegue il desiderio di collezionarne e preservarne nel tempo. Antica è la definizione, dallo storico e geografo Strabone (circa 60 a.C. – circa 20 d.C.) che sintetizzò nel termine ‘philobiblìa’ questa propensione rimasta intatta nei secoli a venire. Spesso ripresa nella trattatistica: ad esempio, nel 1344 da Richard de Bury nel suo celebre Philobiblon, dissertazione sulla passione per i libri.

In tempi moderni, il termine appare nel 1681 a Utrecht, nei Paesi Bassi: Bibliophilia sive De scribendis, legendis et aestimandis Libris Exercitatio Paranetica del vescovo Christianus Liberius Saldenus (pseud. van Guilielmus Saldenus). Diffuso a partire dalla Francia verso la zona mediterranea nel XVIII secolo, il termine entra nel dizionario italiano solo nel XIX secolo, trascolorando in seguito in varie sfumature di specie. Anche peggiorative, come ‘bibliomania’: la degenerazione della bibliofilia in cieco e feticista furore di possesso, che affligge accumulatori ossessivi di libri, alieni da ogni interesse per il contenuto degli stessi. Per continuare nella ‘bibliofobìa’: atteggiamento maniacale generalmente contagioso, che progressivamente (e periodicamente) sfocia in fiammeggianti situazioni circolari: «i Romani bruciarono le biblioteche degli Ebrei, dei Cristiani e dei Filosofi; gli Ebrei bruciarono i libri dei Cristiani e dei Pagani, e i Cristiani bruciarono quelli dei Pagani e degli Ebrei».

Le condotte bibliofile si esprimono anche mediante topos metaforici. Ad esempio, verso pratiche riconducibili alla ‘bibliofagìa’: divisa in pratiche distruttive, che tendono a sottolineare la corruttibilità materica del sapere operata dalla mancanza di discernimento da “animali” a carattere parassitario (è una delle modalità della cosiddetta ‘biblioclastìa). E pratiche costruttive: il centellinare sapiente di gourmets culturali, intellettuali in grado di gustare il cibo e i suoi condimenti (Agostino, De doctrina christiana, IV, 11, 26).

Ci troviamo dunque di fronte ad una fauna di ‘bibliotipi’ operosa ed intraprendente, poliedrica, mutevole, appassionata e a tratti sospetta. Ci si aggira fra biblioclasti, bibliofagi, bibliodèmoni, bibliocleptomani, bibliophatos, bibliotaphe, bibliologi, …

È questa l’ambientazione, l’humus duraturo di un’umanità libresca che accoglie e nel quale attecchisce, prolifica e si diffonde l’Ex-libris; soprattutto dall’avvento quattrocentesco della stampa a caratteri mobili in occidente (nella stessa epoca in Oriente, l’invenzione era datata ormai di almeno quattrocento anni, se consideriamo il tipografo Bi-Sheng).

Potremo definire la particolar causa dell’avvento dell’Ex-libris in rapporto alla stampa a caratteri mobili. Questa novità, infatti, permise quell’enorme svolta culturale di tutto l’occidente grazie alla produzione e diffusione estesa di innumerevoli copie dello stesso libro, pressoché identiche tra loro nelle tirature a grandi (enormi per l’epoca) cifre.

La produzione in serie di libri portava con sé la “spersonalizzazione” della copia singola. Questa problematica non toccava minimamente la precedente produzione amanuense che, anzi, si caratterizzava per l’unicità del libro che produceva, a partire dall’apposizione autografa del nome proprietario fino al principio di esclusività che ancor oggi ci permette di individuare esattamente quel libro con il nome del proprio committente e primo proprietario. Ad esempio: la Bibbia di Borso d’Este (manoscritto in due volumi preziosamente miniato, realizzato nella seconda metà del XV secolo per Borso d’Este, Duca di Ferrara, Modena e Reggio e Conte di Rovigo). Oppure il Libro delle Ore del Duca di Berry (il Duca Jean de Berry – Giovanni di Valois – fratello di Carlo V Re di Francia, il manoscritto, miniato nello stile del nascente gotico internazionale, fu realizzato nella prima metà del XV secolo).

L’Ex-libris rende unica la copia sul quale viene apposto, contrastando la dimensione seriale, ribellandosi all’omologazione, insorgendo alla minaccia di “qualunquità”. Difatti, l’Ex-libris dichiara la proprietà, stabilisce una corrispondenza personale tra proprietario e proprio quella copia del libro.

L’idea dell’Ex-libris discende dalla realizzazione della ‘marca tipografica’. I benefici industriali della “scoperta” della stampa a caratteri mobili portarono con loro anche industriali problemi. Durante un lungo primo periodo di stampa a caratteri mobili, alla larghissima diffusione delle tirature corrispondeva l’altrettanto diffusa pratica della pirateria editoriale. Siamo ancora lontani dalla realizzazione di un possibile diritto autoriale, diritto editoriale, un “copyright” che, con il riconoscimento della “sacralità della proprietà” vedrà la luce nel 1801, conseguenza della Rivoluzione Francese. Per l’epoca, ci si doveva accontentare dei “privilegi” che venivano accordati agli stampatori dalle autorità. Questi privilegi non garantivano un granché, se non il permesso di stampare in esclusiva una determinata opera. La contraffazione delle opere era all’ordine del giorno. L’Europa brulicava di falsi, d’autore o meno. Il tentativo di rendere “uniche” le copie prodotte dalle stamperie fu l’apposizione della marca tipografica. Questa derivò da un uso già in voga nel commercio dei beni. Impressa sul frontespizio di ogni volume prodotto ne caratterizzava la provenienza originale.

Il primo esempio compare (anche se non in tutti gli esemplari) nel salterio di Fust & Schöffer, stampato a Magonza nel 1457, libro nel quale si stampò per la prima volta il colophon indicante data, luogo di stampa e nome del tipografo. Sono rimaste famosissime le marche del laziale Aldus Mannucius (grammatico di lettere classiche emigrato in Venezia dove, latinizzando in senso classico il proprio cognome trasformandolo in “Manutio”, si dedicò con creatività e successo all’impresa editoriale). La celebre àncora con il “delfino” di Aldo Manuzio è pari alla celebrità del caduceo con una colomba tra le teste dei due serpenti sostenuto da due mani contrapposte creato da Hans Holbein il giovane per lo stampatore svizzero Hieronymus Froben.

Pur essendo praticamente omologhi nella forma grafica di riferimento, la marca editoriale certifica la provenienza delle innumerevoli copie del libro, mentre l’Ex-libris certifica la destinazione di ogni copia del medesimo libro. Complessità ossimoriche della libido librorum.

Negli ormai cinquecento anni della sua storia, sono varie le forme in cui si è presentato l’Ex-libris. Forme che hanno corrisposto ai mutamenti, alle evoluzioni culturali e, senza abiurare alla loro vocazione primaria, moltiplicato e diversificato la propria presenza nei libri. Possiamo distinguerne ormai varie tecniche di realizzazione e varie tipologie programmatiche. Tradizionalmente, la prima tecnica di realizzazione fu l’incisione su legno: la xilografia. Essa permette una libertà che ed un’immediatezza creativa alla fantasia, molte volte “eletta” dalla mano di artisti importantissimi che non hanno disdegnato le commissioni di Ex-libris (possiamo annoverare xilografie di Hans Holbein, di Lucas Cranach e di Albrecht Dürer; in tempi moderni anche di molti artisti italiani quali ad esempio Alberto Martini, Enrico Baj, Umberto Boccioni). La xilografia produce risultati estremamente suggestivi, ma non permette la definizione del dettaglio che invece può mettere in opera la successiva incisione calcografica su metallo, il rame o lo zinco. Messe a punto successivamente alla xilografia, le tecniche calcografiche quali l’acquaforte o la puntasecca, superano l’incisione su legno per la qualità del tratto, la profusione di dettaglio e la possibilità di graduare i chiari e i scuri. A seguire, troviamo realizzazioni litografiche (tecniche inchiostranti su pietra) che garantiscono numeri di produzione molto più grandi per la durevolezza del supporto, assai maggiore che nei precedenti. Ovviamente, in tempi moderni gli Ex-libris si sono avvalsi delle possibilità tecnologiche progressive: fotocopiati, realizzati mediante le normali tecnologie grafiche digitali, un po’ freddine ma molto pratiche.

Dal punto di vista del catalogo “di specie”, possiamo distinguere generalmente in: Ex-libris araldici, Ex-libris parlanti, Ex-libris pro-festivitate. Sono distinzioni orientative, dai limiti imperfetti, in quanto le caratteristiche degli Ex-libris sono reciprocamente permeabili e agiscono in un ecosistema in cui la legge vigente, fermi restando i riferimenti culturali delle successive attualità, è l’osmosi concettuale. Parliamo quindi di Ex-libris araldici quando si rifanno nelle proprie forme all’araldica di origine medievale e, esattamente come quella, riprendono e compongono adeguatamente le figure di riferimento del casato di appartenenza del titolare. Si dicono parlanti quegli Ex-libris in cui la figura, evitando la forma celata dell’allegoria, nella sua interezza rappresenta in maniera ludicamente enigmistica il nome del proprietario. Ne abbiamo un esempio antico, anzi il più antico Ex-libris xilografico conosciuto, quello dell’ecclesiastico di Baviera Hans Knabensberg, detto “Igler”. Risale al 1459 e vi è rappresentato un istrice, un riccio che porta un fiore in bocca, in un cartiglio vi compare la scritta in tedesco medievale “Hanns Igler das dich ein Igel Kus” (Hans Igler ti dà un bacio da porcospino). Si gioca evidentemente sull’assonanza tra il soprannome “Igler” e il nome del porcospino, che in tedesco fa “Igel” e, nello stesso tempo, si intende il monito puntuto per l’incauto che ha in mano il libro. Si chiamano Ex-libris pro-festivitate quelli che sono confezionati in particolari occasioni e ricordano, celebrano una ricorrenza, una data particolare o un evento. Fin dal loro nascere, gli Ex-libris iniziano ad esercitare, perfezionandola nel perimetro dei loro pochi centimetri quadrati, quella particolare forma di comunicazione che si avvale simultaneamente di immagini e parole. Essi condensano in un’unica configurazione l’opportunità di un approccio cognitivo complesso e, negli esiti più raffinati, elevato.

In generale, ognuno di noi pensa in termini verbali, strutturando le riflessioni alla stregua di una sorta di “discorso interiore” che applica e rispetta le regole logico-formali della lingua parlata e si sviluppa nel tempo considerando successivamente i vari elementi: il cosiddetto pensiero logico-sequenziale. Le forme del pensiero non si esauriscono con questa modalità. Tra i vari modi, possiamo anche pensare ‘mediante entità’ che assomigliano a rappresentazioni fotografiche o pittoriche, associabili alla percezione del reale. In questo caso, il pensiero non si sviluppa consequenzialmente ma simultaneamente. Inoltre, le immagini mentali possono essere facilmente “contraffatte” o manipolate in un’opera di ridefinizione continua. Una ridefinizione che consente molteplici prospettive, il confronto rapido di più stimoli, lo stabilire analogie tra ambiti diversi e distanti fra loro cogliendo significati complessi. L’immaginazione creativa nello spazio e nel tempo. Gli Ex-libris, che per lungo tempo si sono resi partecipi attivi all’impresistica e all’emblematica cinquecentesca, hanno contribuito al perfezionamento di quello che, in tutto il mondo umanistico occidentale, diventerà un “nuovo linguaggio”: un neo-linguaggio in cui si ascolta l’immagine e si vedono le parole. Questo atteggiamento sincretistico, che ha dato alla luce il peculiare congegno creativo dell’emblema, è stato perseguito basandosi con sicurezza su quello che si è rivelato poi un colossale fraintendimento.

È certo che fu Andrea Alciato, giurista milanese del periodo rinascimentale, classicista appassionato e di talento, a dare l’avvio al genere. Fin da giovane egli, nelle ore di festa e per diletto, componeva epigrammi in cui convogliava una certa ambizione poetica, molta curiosità e interessi filologico-antiquariali per il mondo classico. Giunse a possedere prestissimo una magistrale conoscenza della materia, testimoniata dalla pubblicazione della raccolta epigrammatica Momentorum veterumque, inscriptionum, quae cum Mediolani tum in eius agro adhuc extant collectanea nel 1508 (Alciato contava allora sedici anni!). Opera dal notevole commento filologico e storico, che si guadagnò un posto importante nella storia dell’epigrafia latina, precede di 23 anni la pubblicazione più famosa degli Emblemata (editio princeps 1531, per i tipi di Heinrich Steyner di Augusta, non autorizzata dall’autore. Nel 1534, Alciato fece stampare a Parigi l’edizione convalidata, realizzata da Christian Wechel). Capostipite del genere emblematico, che tanto riscontro ebbe nei tempi successivi, fin da subito pose chiaramente i termini dell’arte: la traccia ecfrastica (il testo descrittivo) deve costituire la base verbale utile alla concretizzazione iconica di un tangibile segno ‘geroglifico’, un’intensa immagine da realizzarsi poi ad esempio nella pittura, o nel conio.

È con questo intento che viene trasformata la funzione descrittiva del testo: qui essa si rende guida dell’immagine, che a sua volta diviene simbolo autonomo della parola da cui scaturisce. Il costituito binomio parola/immagine, strutturato in una architettura cognitiva espressiva, faconda e suggestiva, avrebbe voluto riproporre l’arcana enigmatica del linguaggio dell’antico Egitto, assai in voga in quei tempi. L’intenzionalità appare limpida nel commento al De verborum significatione (1530) dove Alciato scrive: «Le parole significano, le cose sono significate. Tuttavia anche le cose talvolta significano, come i geroglifici di Horo e di Cheremone, argomento sul quale anche noi abbiamo composto un libretto in versi, il cui titolo è Emblemata».

Ora, il fascino per l’antico Egitto che connotava il periodo di Alciato era la conseguenza del ritrovamento da parte degli umanisti degli Hieroglyphiká, una raccolta in greco che comprende la descrizione, in tono ermetico e simbolico, di circa 200 “ideogrammi” egizi di argomento cosmologico, astronomico, liturgico, teologico, umanistico, naturale. L’autore di questa raccolta è Orapollo (l’Horo della citazione precedente) mentre di Cheremone, sacro scriba e filosofo stoico, non ci sono pervenute opere originali ma attribuzioni postume (la cosiddetta “tradizione indiretta”). Negli Adagia, infatti, Erasmo da Rotterdam attribuisce il lessico geroglifico dell’Hypnerotomachia Poliphili a Cheremone (equivoco notevole, visto che l’iconografia dell’Hypnerotomachia, pur osservando una modalità dal carattere fortemente enigmatico, è chiaramente di base latina. Ma forse, era proprio alla modalità che si riferiva Erasmo).

In mancanza di attendibili decrittazioni linguistiche coeve, l’unica fonte di confronto con la scrittura egizia furono le interpretazioni delle descrizioni contenute nello Hieroglyphiká. Esso fu investito pertanto di un’autorità imperitura fino al 1822, quando Jean-François Champollion finalmente ne interruppe il primato, riportando alla luce il valore grammaticale e fonetico dell’egiziano antico.

Nel Rinascimento perciò si aveva una idea, per così dire, faziosa dell’antica scrittura egizia. Nel suo De re aedificatoria, scritto attorno alla metà del XV secolo e pubblicato per la prima volta nel 1485, Leon Battista Alberti certifica la cognizione rinascimentale della scrittura egizia: «Quanto agli Egizi, si servivano di simboli figurati, così: un occhio significava la divinità, un avvoltoio la natura, un’ape il Re, un cerchio il tempo, un bue la pace, e così via; e solevano dire che ogni paese conosceva soltanto il proprio alfabeto, e che un giorno di questo si sarebbe persa nozione del tutto». Gli uomini del Rinascimento erano persuasi di aver trovato le vestigia di un linguaggio divino, di un linguaggio “sacro” nel quale lessico si rispecchiavano le innumerevoli trame universali, nella semplicità della sintesi geroglifica.

Ma è pur vero che, pur nella fallacia della sua premessa, si è sviluppata un’inedita e profonda modalità espressiva dalla semiosi complessa. A differenza delle operazioni descrittive realizzate nell’araldica, l’emblematica si pone come la conseguenza di una ricerca filosofica ed artistica impegnata nella rappresentazione del pensiero mediante forme ad esso il più possibile coincidenti. L’emblematica riduce in maggior misura possibile la distanza tra significante e significato, sposando la dimensione logico-sequenziale alla dimensione immaginativa e sviluppando in tal modo un congegno figurativo/poetico dalla circolarità dinamica, fertile nei suggerimenti progressivi di significato, stimolante soggetto alla speculazione.

Complice la temperie rinascimentale ed il suo afflato neoplatonico, il concetto iconico della scrittura egizia descritto da Orapollo offre alla contemplazione trascendente repertori di immagini polisignificanti, affascina l’enclave intellettuale e si diffonde in tutte le manifatture artigianali di pittori, orefici, fonditori, realizza stemmi, distintivi, insegne, medaglie, mobilia, armi, addobbi, decorazioni, marche tipografiche e naturalmente Ex-libris.

L’arte che si concentra sulla realizzazione dei “cartoncini da libro” non è immune dallo Zeitgeist e raccoglie le implicazioni che lo elevano al rango di “segno”. Ed è ora indispensabile accennare in termini semiotici alla “qualità segnica” in senso generale. Dato un ‘oggetto dinamico’ incontrato nella realtà, il confronto con esso ci spinge a realizzare un segno che chiameremo tecnicamente representamen. In una cascata interpretativa, il representamen che abbiamo realizzato crea nella mente di un altro interlocutore un segno equivalente, ma non uguale. Dobbiamo l’equivalenza ad uno “sfondo culturale” omogeneo, ad un’idea condivisa di rappresentazione. Le differenze, invece, le dobbiamo alle difformità qualitative delle diverse percezioni e/o possibilità interpretative di carattere personale. Nella mente del nuovo interlocutore si forma così un ‘oggetto immediato’ che, passando per la condivisione culturale dei processi d’interpretazione, ritorna sull’oggetto dinamico di partenza che, per essere individuato sarà soggetto di successiva semiosi e sarà realizzato un nuovo representamen. Il processo semiosico somiglia all’inseguimento della tartaruga da parte di Achille “piè veloce”: man mano che Achille si avvicina alla tartaruga, paradossalmente non riesce a raggiungerla per il moltiplicarsi di frammenti della distanza che li separa. L’oggetto dinamico rimane sempre presente come ‘cosa in sé’, ma non si riesce a definirlo se non per progressiva ed infinita semiosi. L’emblematica cinquecentesca crea un mirabile ed ineguagliato “dispositivo” formale che, riproponendo la dinamica semiosica, si prodiga nella definizione dell’essere come effetto delle qualità cognitive del linguaggio iconico/verbale. In questa prodigiosa disposizione formale, viene evitata la preventiva e consueta presenza di significato su cui strutturare successivamente una forma. Invece, viene predisposta un’entità di produzione di senso, di significato universale, che risiede nel rapporto dinamico, paritario e vorticoso, tra immagine e parola.

L’immagine/figura dell’emblematica cinquecentesca penetra definitivamente nel linguaggio. Linguaggio inteso in prospettiva teologica, all’immediatezza cognitiva dell’essenza angelica. Potremo pensare infatti, al tendere verso la facoltà comunicativa degli angeli i quali non si avvalgono tra loro di mezzi per veicolare il pensiero, come afferma Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae. Qui Tommaso esemplifica la facoltà angelica con il termine illuminazione. Oppure, come propone Dante Alighieri nel XXIX canto del Paradiso, mediante la spiegazione di Beatrice: godendo ininterrottamente della visione divina, gli angeli presenziano in tutti i tempi e in tutte le cose, e non abbisognano di decifrazioni sostenute dalla memoria. L’impresa e l’emblema sono il luogo dove si materializza il corpo dell’idea, dove il sensibile entra in rapporto con l’intelligibile, cosicché l’elemento intuitivo prevale in modo netto su quello discorsivo.

Nell’emblematica e nell’impresistica cinquecentesca si propone la struttura essenziale che avvertirà Walter Benjamin: «Ciò che è scritto tende all’immagine», e successivamente Jacques Derrida che, separando e rapportando le due polarità scrittura/parlato, definirà in questo modo: «la scrittura non è che la figurazione della lingua».

L’immagine che si viene a creare con l’impresa e l’emblema cinquecentesca è metamorfica, allusiva, ambigua, velata, ombra e riflesso, un artificio che rende ancor più possibile, probabile il superamento dell’ineffabilità del puro Logos, del significato che si rende attingibile nel momento in cui viene calato nel travestimento della scrittura, immagine della parola. Uno sdoppiamento continuamente polimorfico, speculare e riflessivo, che tanta importanza acquisirà nelle realizzazioni del pensiero tra’500 e ‘600 se pensiamo ad esempio al Teatro della sapienza di Giulio Camillo Delminio, alle mnemotecniche di Raimondo Lullo, alla “facoltà grafica generale” di Giordano Bruno. Importanza ed influenza che proseguì nel periodo che abbraccia ‘800 e ‘900 inoltrato, ad esempio: l’avvento della psicologia nelle tesi fondative di Sigmund Freud, le immagini “archetipali” di Carl Gustav Jung, la letteratura e la pittura del “Doppelgänger” (Doppio sogno diArthur Schnitzler, Lui di Guy de Moupassant, le Finzioni di Jorge Louis Borges, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert L.Stevenson, Svetlana allo specchio di Karl Pavlovič Brjullov, le varie Donna allo specchio di Federico Zandomeneghi, Donna con l’orologio di Pablo Picasso, Toilette di Ernst Ludwig Kirchner,etc. ).

Sul finire del ‘500, quella delle imprese e degli emblemi divenne una vera e propria moda. Ogni gentiluomo, militare, letterato o chicchessia esibiva in società un’impresa personale. Una specie di ‘biglietto da visita’ ante-litteram, ma più evoluto giacché proponeva e sottolineava le qualità determinanti della persona unita all’abilità nell’esprimerle. Gli Ex-libris coevi non si scostano da questa determinazione ma, dal vertice conosciuto tra il ‘500 ed il ‘600, gli Ex-libris, pur mantenendo la loro presenza nei libri posseduti, sono soggetti ad un continuo mutamento formale, via via in termini sempre meno universali e sempre più personalistici.

Dopo il ‘600, in piena epoca controriformistica, il rifarsi stilistico alle marche emblematiche continua ma si arricchisce di motivi ornamentali barocchi. È con il prepararsi della Rivoluzione francese nel ‘700 e la conseguente omologazione stilistica orientata al neoclassicismo, che si afferma l’uso delle marche calligrafiche. Esse consistono nelle iniziali, spesso riunite in monogrammi calligraficamente arabescati, del nome appartenente al soggetto titolare. Questa “emancipazione” prosegue nell’800, quando sovente il nome del soggetto titolare non è più accompagnato da alcuna figura. Si afferma e caratterizza la storia dell’800 un’inedita classe sociale, la borghesia. Essa possiede numerose biblioteche e allarga notevolmente il mercato dei fruitori di Ex-libris. Si assiste ivi ad un recupero esteriore della tradizione verbo/visiva delle imprese rinascimentali, ma caratterizzate in maniera “originale” dalla presenza della figura umana, rigorosamente proibita invece dagli elevati intenti cinquecenteschi. Nella sua tipicità ottocentesca viene a crearsi così l’Ex-libris romantico.

Ancora nel ‘700, complice la progressiva alfabetizzazione dovuta all’altrettanto progressiva diffusione dei libri, nacquero al di fuori della cultura di corte le cosiddette “accademie letterarie” . Ovviamente, allargando l’interesse e la passione per il libri, le accademie letterarie diffusero ulteriormente l’usanza degli Ex-libris.

Ma è finalmente con il ‘900 che, dopo una proliferazione dei molti stili del modernismo, dalla metà del secolo si assiste alla ripresa e al riutilizzo delle marche cinquecentesche, anche in forma di “logo”. Un esempio illustre: lo struzzo dell’editore Giulio Einaudi che proviene dall’importante trattato seicentesco Dialogo delle imprese militari et amorose di Monsignor Paolo Giovio.

Una tendenza che si afferma tra innumerevoli altre: l’Ex-libris, sulla scorta della diffusione delle biblioteche borghesi e della proprietà libraria estesa ad ampi ceti sociali che imparano sempre di più a leggere, viene ad incontrare un pubblico vastissimo ed eterogeneo, che lo conduce a forme ed esiti tra i più disparati. Una straordinaria molteplicità di linguaggi, stili, tecniche, dimensioni sono il tratto dominante di questa fenomenale diffusione. È tale la varietà e la contaminazione stilistica novecentesca da sfuggire alla classificazione unitaria, e ad alimentare un vivace collezionismo ex-libristico.

È il ventesimo secolo ad estremizzare la tendenza artistica dell’Ex-libris: esso diventa una piccola opera d’arte grafica, autonoma nello stile personale ed estetico dell’artista. Viene restituita alla parola il carattere didascalico, viene distaccata dall’organicità misteriosa della Natura. La parola si rende momento nel quale l’uomo-artefice può razionalmente operare: il significante prevarrà sui significati, il segno diventa una “produzione”. Ed è fatale che nel tempo l’Ex-libris abbandonerà le proprie origini nobili e colte, scadendo in un genere minore di connotazione decisamente provinciale. Il dilettantismo intellettuale più degenere non ignora la pratica ex-libristica, e spesso è proposta, come unica finalità, l’accumulo, il “pezzo strano” in più da aggiungere alla propria collezione.

Nonostante l’inevitabile e oltremodo varia evoluzione che accompagna la produzione degli Ex-libris lungo la loro storia, un aspetto è rimasto costantemente determinante: nel proprio “cartellino da libro”, il titolare esprime volontariamente un’immagine dei propri valori morali e/o filosofici, e/o etici prioritari, o di un pensiero rispetto ai libri, allo studio, di specifici interessi culturali: i motti degli Ex-libris, spesso in forma allegorica e spesso in latino, dichiarano qualcosa di fondamentale del proprietario. È il titolare dell’Ex-libris che si manifesta nella composizione di quest’ultimo. La traduzione di Ex-libris è “dai libri di”, a cui si fa seguire il nome del proprietario.

Ma, come abbiamo ormai compreso, il “cartellino da libro” è molto di più che un semplice contrassegno: l’Ex-libris, segno polisemico universale e personale, definisce la struttura e dichiara una continuità che comprende la civiltà culturale, la biblioteca e la mente del bibliotecario/titolare.

 

Andrea Oddone Martin

 

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Per il saggio:

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